Star Wars Visions: un’antologia non proprio memorabile di Diego Castelli
L’unione fra Star Wars e l’animazione giapponese porta a nove episodi con grandi potenzialità, ma dal risultato abbastanza modesto
Quello di Star Wars è un fandom abbastanza particolare. Gli amanti della saga concepita da George Lucas, che ormai ha passato i quarant’anni d’età (la saga dico, non George Lucas), adorano il mondo, anzi l’universo costruito dal regista americano, e lo amano così tanto da essere diventati presto molto critici e cinici nei confronti dei singoli tasselli che lo compongono.
Per dirla in altro modo, i fan di Star Wars sono fra i più appassionati e insieme criticoni nel mondo della cultura pop, a volte per limiti specifici delle opere che di Star Wars costituiscono l’effettivo contenuto, a volte perché l’aspettativa è sempre così alta, e così perfette sono le storie che crediamo di aver creato o immaginato nei nostri sogni, da trasformare l’incontro con la realtà in un brusco risveglio.
Fatta questa premessa, e sottolineato che io sono tra i fan più ottimisti di Star Wars (altrimenti detti “uno di quelli che s’è divertito molto anche con l’ultima trilogia”), temo che l’incontro fra l’universo di Guerre Stellare e l’animazione giapponese, suggellato dalla produzione di Star Wars: Visions, disponibile con nove episodi da un paio di giorni su Disney+, finirà nel calderone delle opere che “potevano fare meglio”.
Di per sé, l’idea aveva un che di fascinosamente sovversivo: per creare Star Wars, George Lucas ha attinto a fonti culturali molto diverse, dalla letteratura fantascientifica occidentale come dai miti e leggende medievali ed europei, passando per le sfumature religiose del Medio Oriente. Se guardiamo all’Estremo, però, l’influenza giapponese non è così marcata. Dopo tutto sono “cavalieri jedi” (jedi knights), non “samurai”.
Per questo, affidare nove episodi autoconclusivi a sei importanti studi di produzione nipponici – fra cui anche la Production I.G. di Ghost in The Shell, tanto per dirne una che conosco pure io che non sono espertissimo di animazione giapponese, a parte i cartoni che guardavamo da bambini – poteva creare una contaminazione tanto inaspettata quanto feconda, e l’approccio molto libero della serie antologica (come se fosse il “What…if?” di Star Wars) poteva portare a soluzioni interessanti che non appesantissero il canone ufficiale.
Se però le premesse erano buone, a patto di tenere la mente aperta, il prodotto finito non è all’altezza delle aspettative.
E forse vale la pena esplicitarle, queste aspettative. Il risultato migliore, almeno a mio giudizio, sarebbe stato quello di trovare un equilibrio fra tre elementi: le principali direttrici e simboli narrativi delle Guerre Stellari di Lucas; il tratto animato giapponese; le sfumature, ombre, colori di quella cultura e di quel modo di fare narrazione, magari sfruttando il fatto che la Galassia starwarsiana è così vasta, nelle sue migliaia di pianeti, da fornire praticamente qualunque tipo di spunto.
Questa cosa purtroppo succede solo in parte, e un equilibrio “vero” mi sembra si raggiunga in non più di due-tre episodi su nove (fra cui probabilmente il primo, “Il duello”, il più ardito anche dal punto di vista grafico, il terzo, “The Twins”, e l’ottavo, “Lop & Ocho”). Gli altri cadono in due errori speculari: o sono “troppo Star Wars“, con l’unica differenza, rispetto alla narrazione tradizionale della saga, di essere effettivamente degli anime; oppure “poco Star Wars“, con i simboli e le mitologie lucasiane che rimangono troppo sullo sfondo, in una storia però, che di per sé, non è così accattivante.
E se dal punto di vista narrativo non c’è molto, in questa antologia, che riesca ad aprirci spazi davvero nuovi, mondi che ci venga voglia di vedere raccontati in film o serie a sé stanti, c’è poi un tema puramente tecnico piuttosto vistoso. Al netto del citazionismo abbastanza spinto della saga ufficiale (ambientazioni, transizioni, colonna sonora ecc) in termini puramente visivi Star Wars: Visions appare semplicemente vecchia.
Mi viene spontaneo fare il paragone con un’altra saga animata antologica, fantascientifica e bingewatchabile che abbiamo visto di recente, cioè Love, Death & Robots di Netflix. Se ricordate, io non la trovo nemmeno il capolavoro che dice qualcuno, ma è innegabile che alcuni episodi di Love, Deat & Robots stupiscano prima di tutto da un punto di vista artistico, che sia per la forza bruta della loro computer grafica, o al contrario per la capacità di sparigliare completamente le carte con stili diversissimi da qualunque nostro concetto di “tradizionale”.
Con Star Wars: Visions, al contrario, non ci si stupisce quasi mai dell’aspetto visivo, e al massimo si può gioire per qualche combattimento ben coreografato, ma niente di più. Nella maggior parte dei casi ci sembra di guardare cartoni vecchi di venti o trent’anni, in cui peraltro le brevi incursioni della computer grafica appaiono estremamente posticce.
Per una saga che, nelle sue varie incarnazioni, è sempre stata anche un’avanguardia tecnica, non è esattamente un ottimo biglietto da visita.
Poi d’accordo, non manca qualche passaggio scritto meglio di altri, e ci sono episodi che riescono a trovare una loro compiutezza pur in tempi davvero ristretti (molte puntate nemmeno arrivano a 15 minuti). Siamo però dalle parti del compitino: se Disney viene da noi e ci dice “ehi, ho dato Star Wars in mano a sei importanti studi di animazione giapponese, chissà cosa diavolo ci tirano fuori”, è chiaro che noi ci aspettiamo cose sorprendenti. Invece, alla fin fine, non siamo sorpresi quasi da niente, se non dal fatto in sé di vedere personaggi animati con tecniche che solitamente non associamo al mondo di Star Wars, e che invece brandiscono spade laser e parlato di Forza. Bene, bello, wow, ma l’effetto sorpresa dura pochi minuti, al termine dei quali cominci a chiederti perché questi tizi dovrebbe avere la spada laser contenuta in un lungo fodero. Sì certo, perché devono fare i samurai che estraggono la spada con ampio movimento del braccio, d’accordo, ma non ha nessun senso con il concetto di spada laser per come ci è stato raccontato nei film.
Quindi insomma, vedete che se una serie di questo tipo non è in grado di catturarti subito, a istinto, poi è un attimo mettersi a fare i nerd puntigliosi.
L’unica vera lancia da spezzare a favore di Star Wars: Visions, specie nel confronto con Love, Death & Robots, riguarda il target: l’impressione, benché variabile da episodio a episodio, è che Disney abbia voluto produrre una serie che fosse adatta anche a un pubblico molto giovane, cosa che giustifica almeno in parte la semplicità di certe storie e anche di certi tratti stilistici.
Però questo non basta, ci sono anch’io, di anni ne ho quasi quaranta, di serie animate a tema Star Wars per i pischelli ce ne sono già un tot, e io da questa mi aspettavo di più.
Non so se ci sarà una seconda stagione, ma onestamente non mi interessa granché.
Perché seguire Star Wars: Visions: per chi è fan di Guerre Stellari, ha comunque senso dare un’occhiata a un esperimento così diverso dal solito.
Perché mollare Star Wars: Visions: alla fine non si può che essere un po’ delusi da un gran mole di potenzialità sprecate.
PS Avete presente che a inizio articolo parlavo di una certa suscettibilità del fandom di Star Wars? Ecco, è possibile che in questo caso io mi riferisca solo a me, visto che in giro Star Wars: Visions si è portata a casa recensioni entusiaste, sia dalla critica specializzata che dal pubblico. Non sono abituato ad andare controcorrente, quello è il Villa!
Però d’altronde voi siete qui per sentire l’opinione mia, non di altri, e quando su Rotten Tomatoes leggo la frase “Gorgeously animated and wildly creative” (“splendidamente animato e selvaggiamente creativo”), mi chiedo se abbiano mai visto un qualunque film di Star Wars, o un qualsiasi cartone animato giapponese.