Sex Education 3: non la stagione migliore di Diego Castelli
Su Netflix torna Sex Education, e ritrovare i vecchi amici fa sempre piacere. Però bisogna anche dire che qualcosa ormai scricchiola
Mi capita relativamente spesso, quando mi trovo a dover analizzare una stagione seriale che non sia la prima, di tornare con la mente a un concetto che qualche anno fa avevo espresso in un articolo intitolato “Serie che (non) durano”. Parliamo di quelle serie tv che in qualche modo contengono al proprio interno, e fin dall’inizio, i semi della loro conclusione, come se partissero con una specie di orologio biologico già settato. A suo tempo (mamma mia, era il 2010) citavamo Ugly Betty, o Prison Break, e ci dicevamo che anche le serie con la scadenza già fissata possono proseguire oltre, perché un modo si trova sempre, ma non è detto che sia un bene.
Guardando la terza stagione di Sex Education, che racconta di un mondo liceale in cui ragazzi e ragazze in piena pubertà cercano di passare indenni le tempeste ormonali facendosi aiutare da una consapevolezza psicologica superiore alla media, non ho potuto non pensare a quel concetto lì. E il fatto che ci abbia pensato così presto non è una bella cosa, ma d’altronde si sono un po’ tirati la zappa sui piedi.
Dunque, questo articolo viene pubblicato nella mattina del giorno dell’uscita su Netflix. Do quindi per scontato che qualcuno arrivi qui senza ancora aver visto tutti gli episodi, che noi abbiamo ricevuto con qualche giorno di anticipo.
Per questo la prima parte della recensione sarà per quanto possibile spoiler-free, e sotto invece vi piazzo qualche riferimento più preciso che potete tornare a leggere, se vi va, quando avrete finito.
Cosa non si fa per raddoppiare i clic…
Cominciamo, giusto per serenità, da quello che di buono c’era e c’è in Sex Education.
Perché a conti fatti, e fin dal pilot, parliamo di un teen drama: protagonisti adolescenti, che vanno a scuola, che si innamorano, litigano, si prendono e si lasciano, scoprono la vita adulta, e vengono in questo osservati da genitori che sembrano tanto risolti ma che son pieni di problemi a loro volta. Detta così non è tanto diversa da Beverly Hills 90210.
Ovviamente, però, quello che rese Sex Education un fenomeno immediato fu la sua capacità di raccontare una generazione che era sì sballottata dagli ormoni, ma che poteva essere più consapevole di quelle che l’avevano preceduto.
Il consultorio deliziosamente illegale dei protagonisti Otis e Maeve, che si facevano pagare per dare consigli sessuali romantico-sessuali a coetanei che si sentivano più a loro agio parlando con loro che non con genitori o terapisti, aveva permesso la scrittura di una serie straordinariamente fresca, divertente, provocante e provocatoria, ma mai oltre il limite della volgarità. Soprattutto, una serie che lavorava su un concetto non banale, cioè l’importanza della comunicazione: come ci dicevamo nelle recensioni delle scorse stagioni, Sex Education non parla dell’educazione sessuale in quanto conoscenza di come funzionano le api e i fiori, ma piuttosto di un’educazione a 360 gradi, sessuale ma anche emotiva, un percorso di conoscenza privo di pregiudizi e tabù, che possa portare a una comprensione migliore di sé e degli altri.
Il tutto senza diventare un circo di ragazzi iper-razionali e già completamente risolti, anzi: Sex Education ha sempre voluto mostrare l’utilità della comunicazione e dell’introspezione, ma non ha mai preteso di cancellare i patemi dell’animo sulla base di una passione quasi professionale per la psicologia. Come a dire che i turbamenti dell’animo arrivano a prescindere, ma conoscerli meglio, e parlarne insieme, forse ci garantisce una vita più serena.
Tutto questo, nella terza stagione, c’è ancora. Le storie altalenanti e pienamente “teen drama” di Otis e Maeve, o di Eric e Adam, senza contare naturalmente la sempre meravigliosa Jean, la madre di Otis interpretata da Gillian Anderson, sono sempre lì a confermare la bontà di una serie che continua a lavorare bene sui suoi personaggi, continua a farceli amare, e non smette di descrivere un percorso di crescita che dalle insicurezze e ingenuità iniziali porta, nel corso della stagione, a nuove prese di coscienza non solo personali, ma anche in qualche modo politiche e comunitarie.
Questo però è tutto sommato normale. Cioè, per quanto queste storie siano raccontate con bello stile e buon ritmo (più sotto faremo qualche esempio), non sono precisamente il cuore di ciò che ci ha fatto innamorare di Sex Education. E qui, purtroppo, arrivano i lati meno riusciti di questa stagione.
I problemi sono sostanzialmente due, intrecciati fra loro. E qui rimarrò molto vado sui dettagli, rimandandovi, se volete, alla sezione spoilerosa.
Da una parte c’è la fine del consultorio di Otis e Maeve, che era già saltato per aria alla fine della scorsa stagione, e che in questa non riparte. Il che succede per motivi pienamente legittimi, la trama mantiene una sua salda coerenza, ma ovviamente in questo modo si toglie un pezzo importante della struttura narrativa della serie.
A colmare il vuoto lasciato da questa sottrazione, arriva Hope: interpretata da Jemima Kirke (era la Jessa di Girls), Hope è la nuova preside della scuola, arrivata con il preciso intento di rimettere l’istituto in carreggiata dopo che le vicende della scorsa stagione avevano fatto conoscere il liceo come “la scuola del sesso”, creando un contrasto fra quello che per noi spettatori è un posto fantastico da guardare, ma al contrario un luogo terrificante per i genitori di tanti potenziali alunni che devono scegliere dove spedire i figli in età da accoppiamento.
Ebbene, senza dare troppi dettagli in questa fase, l’ingresso e lo sviluppo del personaggio di Hope è gestito semplicemente malissimo. La nuova preside si presenta come donna ancora giovane, in gamba, potenzialmente capace di comprendere appieno gli adolescenti, ma presto mostra un volto conservatore e retrogrado, che la trasforma in un vero e proprio villain contro cui praticamente tutti i protagonisti si trovano a dover lottare.
La sfida per la libertà di espressione diventa allora il vero fulcro di questa stagione, in un modo che però suona goffo o posticcio: in primo luogo perché Sex Education sembrava vivere fin dall’inizio ben oltre questo tema, e farla “tornare indietro” potrà forse aggiungere una punta di realismo, ma non trasmette certo l’idea di stare guardando qualcosa di nuovo. Ma soprattutto perché sono proprio gli snodi con cui questa sfida viene raccontata, che non funzionano come dovrebbero, a partire da un personaggio, quello di Hope, che forse si voleva raccontare in modo sfaccettato e non macchiettistico, ma che invece, probabilmente, poteva funzionare meglio proprio se fosse stato molto più caricato di così, senza lasciarci in una via di mezzo che ci sembra buttata lì.
E anche il finale di questa storia suona troppo rapido, tirato via, fino all’ingresso di una cinica realtà che rappresenta un twist tutto sommato accettabile, ma al momento ben poco approfondito.
Considerando che la buona scrittura è sempre stata la cifra principale di Sex Education, questo sviluppo non può che lasciare l’amaro in bocca. Ciò non significa che l’intera stagione sia spiacevole da seguire, né che le nuove turbe dei nostri amati personaggi non possano essere appassionanti. Il tema non è questo, e negli otto episodi caricati oggi possiamo tranquillamente trovare molti momenti divertenti o interessanti. Il tema è quello di una serie partita col botto, che era riuscita a confermarsi con la seconda stagione, ma che con la terza incappa in un po’ di errori anche piuttosto banali, che non ci aspettavamo di vedere così presto.
O forse, come dicevamo all’inizio, dovevamo aspettarci che una serie basata su quel concept, ma che non voleva esserne completamente monopolizzata, avrebbe dovuto cercare presto qualche nuova strada di evoluzione. Le hanno anche cercate, queste nuove strade, ma non ne hanno trovate di eccezionali.
La recensione non spoilerosa finisce qui.
DA QUI IN POI SPOILER SU TUTTA LA TERZA STAGIONE
Andiamo subito al nocciolo del problema, cioè la figura di Hope. Quando arriva, la nuova preside dà di sé un’immagine giovane e alla mano, tanto che si prende gli applausi degli studenti. Nel corso degli episodi, poi, la vediamo spesso nell’atto di dialogare con i ragazzi in modo concentrato, apparentemente coscienzioso, come se volesse davvero ascoltare il loro parere e tenerne conto. Solo che poi si comporta all’opposto, imponendo le divise, obbligando Maeve a togliersi la tinta dai capelli, irreggimentando la vita scolastica così da trasformare il liceo in una specie di collegio d’altri tempi, tutto con l’obiettivo dichiarato di riguadagnare la fiducia degli investitori che minacciano di andarsene se l’istituto non tornerà a essere un posto dignitoso e rispettabile.
Questa contraddizione caratteriale di Hope non ha alcun senso. Non è spiegata, non è motivata, è semplicemente lì, e ci confonde nel modo sbagliato, perché dà l’idea che ci sia qualche mistero che in realtà non c’è. Hope ha un lato oscuro della sua vita, rappresentato dalla difficoltà di rimanere incinta, ma questo aspetto è solo un dettaglio che serve a renderla un po’ più umana e meno odiosa ai nostri occhi, ma non giustifica le modalità espressiva con cui il personaggio si presenta, e che sono fastidiosamente contraddittorie.
Lo scontro che ne deriva, e che vede Otis, Maeve e compagni protestare contro una svolta scolastica che riporta l’educazione sessuale alle videocassette da guardare in silenzio, vuole probabilmente essere una denuncia di certi problemi che nella realtà esistono eccome, e forse serve anche a creare qualche semplice momento di coscienza di classe negli studenti, per darci dei boost di ribellione al regime autoritario che in tv funzionano sempre.
Ma è poca roba, ed è roba posticcia, appiccicata alla bell’è meglio a una trama che non ha mai trattato queste dinamiche, o le ha trattate in modo meno evidente, sfruttando la figura dell’ex preside, padre di Adam, che peraltro in questa stagione ha pure un percorso suo personale molto più efficace, lui sì in grado di emanciparsi da certe rigidità che si portava dietro da tempo.
Non è un caso, dunque, che quello scontro si esaurisca in modo molto goffo: dopo aver organizzato un open day a favore di investitori, Hope si trova di fronte uno spettacolo organizzato dai ragazzi che è l’opposto di quello che le era stato assicurato, uno show di peni e vagine in bella vista con cui gli studenti si ribellano a chi voleva chiudergli la bocca. Dopo questo evento, nemmeno particolarmente epico perché estremamente telefonato, Hope sostanzialmente sparisce, non riesce nemmeno ad avere un vero momento finale di confronto, esce di scena così come ci era entrata (salvo uno scambio in ospedale con Otis) senza dare l’impressione di aver lasciato nulla di realmente interessante o significativo, se non un generico “sì, i ragazzi di Sex Education combattono per poter parlare della loro sessualità”. Non è che prima non lo sapessi.
Certo, nel finale ci sarebbe anche un twist effettivamente degno: i nostri vengono a sapere che le loro intemperanze hanno davvero allontanato gli investitori, portando il liceo sull’orlo della chiusura. Questa è una storia potenzialmente feconda, perché in qualche modo rivaluta il lavoro di Hope e lo mette in una prospettiva diversa, costringendo i ragazzi a prendere coscienza delle conseguenze delle proprie azioni. Azioni che ci sentiamo di condividere pienamente in termini etici e morali, ma che non tengono conto di una realtà esterna molto meno tollerante, che per essere smossa avrebbe probabilmente bisogno di strategie di lotta più raffinate.
Ma queste sono riflessioni che faccio io, non le fa la serie, che nel corso di tutta la stagione ci mostra solo una specie di preside-nazista a cui i ragazzi si ribellano, inserendo solo alla fine un ribaltamento di maggior spessore, ma rimandando alla quarta stagione qualsiasi potenziale approfondimento.
Arrivati alla fine, dunque, si ha l’impressione di aver visto un discreta porzione di spazio narrativo sprecato, che poteva essere usato in maniera più efficace. Per fortuna i personaggi che già conoscevamo sono trattati meglio. Otis e Maeve intrecciano due relazioni insospettabili e opposte (lui con Ruby, la bella della scuola, lei con Isaac, il vicino di casa disabile), ed entrambi finiscono per tornare nelle rispettive orbite con un percorso non sempre raffinatissimo (Isaac in particolare sembra che lo faccia apposta a far tornare Maeve da Otis, come se si arrendesse a una sceneggiatura che vuole così), ma comunque abbastanza puccioso.
Anche sul fronte Jean succedono cose interessanti, con un’intera stagione dedicata a costruire un nuovo rapporto con Jakob, padre del prossimo bambino della psicoterapeuta, per arrivare a un’ultima scena dove si scopre (con ogni probabilità) che effettivamente il bimbo non è suo.
Ma una vera parola buona mi va di spenderla per Adam, l’ex bullo scopertosi gay, che con Eric intreccia una relazione un po’ distonica ma comunque molto tenera, che in questi otto episodi viene messa a dura prova. Adam ha fatto molti passi avanti, ma Eric si rende conto che i due sono comunque in momenti diversi nella scoperta della loro identità, al punto da decidere di lasciare Adam per “vedere il mondo”, se possiamo dire così. In queste vicissitudini, sul personaggio di Adam viene fatto forse il lavoro migliore della stagione. Lavoro di scrittura, per mostrare i lati più nascosti e più fragili di un ragazzo che resta ancora legato a un’immagine da duro che è lo scudo con cui impedisce al mondo di fargli del male, ma anche per dargli una via d’uscita finale, quando il dolore per la rottura si compensa grazie alla scoperta, da parte di Adam, del suo insospettabile talento come addestratore di agility dog. Ma anche performance attoriale, con Connor Swindells chiamato a un continuo (e riuscito) lavoro di sfumature nella costruzione di una personalità repressa e piena di fisime, ma anche piena di un fiammeggiante desiderio di libertà.
Ora la speranza è che la quarta stagione, quando sarà, saprà sviluppare ulteriormente le storie che già conosciamo, prendendo però quello spunto visto nel finale (il liceo che chiude) per costruirci sopra un discorso che non sia solo un banale accrocchio di buoni e cattivi, ma una riflessione più piena sulla sessualità e sul racconto di essa, immersa in una realtà in cui le polarizzazioni più spicce e banali è bene lasciarle confinate sui social.