Y: The Last Man – Potenzialmente una bomba, per ora inesplosa di Diego Castelli
Y: The Last Man racconta di un mondo in cui tutti i maschi muoiono, tranne uno. Detta così sembra quasi una comedy, ma proprio no.
Capita spesso che io e il Villa, quando uno dei due ha visto un pilot che l’altro non ha ancora avuto il tempo di guardare, ci si mandi sintetici messaggi di whatsapp che in una o due frasi anticipano il contenuto del prossimo articolo, giusto per stare sempre aggiornati fra di noi. E un paio di giorni fa, quando è stato il momento di dare al mio socio un’opinione sintetica su Y: The Last Man, nuova serie di FX-Hulu in arrivo da noi su Disney+ il 22 settembre, gli ho scritto proprio il titolo che vedete qui sopra, perché quella è l’impressione che mi hanno lasciato i primi tre episodi. L’impressione di un prodotto potenzialmente dirompente, ma che in queste quasi tre ore iniziali ancora non dirompe.
Ma poi si dirà “dirompe”?
Boh va beh, andiamo avanti.
Sviluppata per la televisione da Eliza Clark (a suo tempo sceneggiatrice di vari episodi di The Killing e Animal Kingdom), e interamente diretta da registe donne, Y: The Last Man è in realtà tratta da un fumetto di quasi vent’anni fa, pubblicato dalla Vertigo, scritto Brian K. Vaughan e Pia Guerra e disegnato in gran parte dalla stessa Guerra.
La storia, semplice ma di immediato impatto, racconta della morte improvvisa e misteriosa di tutti i mammiferi maschi del pianeta (il termine “maschi” potrebbe essere problematico, ma lo vediamo dopo), e del conseguente collasso e ricostruzione di una società di sole femmine (idem come sopra).
Unico scampato alla strage è Yorick (Ben Schnetzer), un ragazzo un po’ spiantato, appassionato di magia ed escapismo, figlio di una deputata del Congresso (Diane Lane), fratello di una paramedica di nome Hero (Olivia Thirlby), e fidanzato con Beth (Juliana Canfield) che se n’è andata in Australia appena prima del macello. E come ciliegina, Yorick è anche proprietario dell’unico altro mammifero maschio sopravvissuto, una simpatica scimmietta di nome Ampersand, che è il termine inglese per indicare il simbolo “&”.
Come facilmente si sarà capito, la Y del titolo ha tre significati: è l’iniziale del nome del protagonista; simboleggia il cromosoma Y che è il vero discrimine fra vita e morte delle persone al momento dell’epidemia (chi ce l’ha muore, chi non ce l’ha sopravvive, a parte Yorick ovviamente); e ha infine il significato di “perché” (che in inglese diventa “why” e ha la stessa pronuncia della lettera Y), a suggerire il mistero sul motivo per cui Yorick sia l’unico sopravvissuto.
Ora, fatte le doverose premesse tecniche, bisogna dividere il resto della recensione in due blocchi.
Sì perché Y: The Last Man è una serie ricolma di potenzialità, che derivano certamente dal fumetto ma anche da ciò che questi vent’anni possono aggiungere ad esso. E queste potenzialità sono tuttora lì, possono sbocciare da un momento all’altro. Però poi dovremo pure dire che, in tre episodi, sbocciate non sono ancora, e quindi un po’ d’ansia ti viene per forza.
Partiamo dal primo blocco.
Io non ho letto il fumetto, ma qui e là ho trovato descrizioni e recensioni che mettono in luce la sua capacità di scavare dentro una molteplicità di temi (dalla clonazione alla religione, dal sesso alle relazioni uomo-donna) che sono facilmente intuibili già solo a leggere il concept. Allo stesso tempo, i quasi due decenni che sono passati dalla sua prima pubblicazione non sono scorsi via in maniera esattamente indifferente alle questioni di genere, di identità, di rapporti fra le persone, anzi. Se guardiamo in special modo agli ultimi anni, quelli del genere, delle discriminazioni, della parità di trattamento fra uomini, donne, e tutte le sfumature nel mezzo, non sono nemmeno più “alcuni” dei temi caldi nella discussione pubblica, ma a volte sono quelli che la monopolizzano proprio, in maniera più o meno proficua, producendo una mole infinita di discussioni, progetti, film, romanzi, serie tv, saggi, trasmissioni televisive, e chi più ne ha più ne metta.
Sarebbe stato impossibile, anzi, sarebbe stato proprio stupido, se uno show come Y: The Last Man, con la trama che si ritrova, non ne tenesse conto.
In questo senso, è la stessa Eliza Clark a sottolineare, per esempio, come la serie voglia indagare certi aspetti che spesso sfuggono a uno sguardo superficiale, e fa l’esempio dei camionisti: il traffico di merci su camion è tuttora una risorsa di fondamentale importanza per gli Stati Uniti, e solo il 5% di chi guida i camion in America è donna. Come potete immaginare, questo diventa facilmente uno dei tasselli con cui raccontare un paese e un pianeta in cui un evento come la morte di tutti i possessori di cromosoma Y ha ricadute immediate su ogni tessuto della società, con la conseguente necessità di una riorganizzazione profonda, in termini pratici ma anche culturali e filosofici, di quella stessa società.
Né si può fare finta che non esista, nel 2021, un problema legato alla coincidenza tradizionalmente accettata fra presenza di cromosoma Y in una persona, e identificazione di quella persona in quanto “uomo”. Nella serie tv, molto più che nel fumetto, diventa allora centrale il racconto delle donne trans che muoiono perché il cromosoma Y ce l’hanno, e degli uomini trans che sopravvivono perché ne sono sprovvisti: per rappresentare quest’ultima categoria c’è fin da subito un personaggio interpretato dall’attore trans Elliot Fletcher, che nel fumetto non esisteva e che qui serve proprio a rappresentare più punti di uno spettro che in questi vent’anni si è fatto più complesso, non tanto nella realtà ovviamente, quanto nella percezione collettiva.
(Fra parentesi, bisogna dire che il terreno è scivoloso: se questa sorta di virus uccide anche una donna trans o una persona non binaria perché ha il cromosoma Y, il risultato immediato potrebbe per l’appunto essere una riduzione dell’umanità a due sole categorie, “maschi e femmine”: dici di essere donna, ma il cromosoma ti ha ucciso, e quindi sei uomo. Una delle sfide dello show sarà proprio quella di rappresentare in modo corretto e comprensibile la differenza fra corredo cromosomico e identità di genere, che in un contesto emergenziale come quello di un’apocalisse pandemica rischiano di confondersi portando a percezioni opposte rispetto a quella cercata da chi la serie la scrive e la produce).
Lo stesso protagonista Yorick riceve una caratterizzazione particolare. In quanto ultimo maschio sopravvissuto in un mondo che rischia di cadere nella violenza e nel caos (perché eliminare i maschi non elimina tutti gli altri squilibri sociali, economici, culturali e via dicendo), Yorick deve essere protetto e nascosto. È evidentemente “fragile” in quanto risorsa del governo, ma scopriamo che è anche abbastanza lontano dallo stereotipo del macho: è un ragazzo di grandi sentimenti ed emotività, e lo vediamo spesso piangere e terrorizzarsi in mezzo a gruppi di donne che invece devono rimanere razionali e professionali, partendo da sua madre e passando per l’Agente 355 (Ashley Romans), misteriosa guardia del corpo che proviene da un servizio segreto talmente segreto che si capisce bene qual è.
Più in generale, la serie sembra pronta, come espressamente dichiarato da chi l’ha creata, a ribaltare determinati ruoli e schemi mentali che in un’ambientazione di questo tipo non possono che ricevere violenti scossoni. Per fare un altro esempio sottile ma piuttosto potente: questo diventa un mondo in cui, quando qualcuno vede una persona che si porta dietro dei tratti solitamente associati al genere maschile (tipo la barba o una voce profonda), dà per scontato che si tratti di un uomo trans, semplicemente perché un maschio biologico, con il cromosoma Y, non può più esistere.
Questo era il primo blocco. Un blocco fatto di grandi potenzialità, di stuzzicanti dichiarazioni d’intenti, di piccoli indizi che, all’interno di questi primi tre episodi, fanno pensare che effettivamente il racconto potrebbe diventare bello ma anche importante, significativo, memorabile.
Solo che ancora non lo è. E non per limiti tecnici (i soldi li hanno spesi e si vede) o del cast (grossomodo tutte brave ed efficaci, più quel paio che sono bravi con la “i”), ma proprio per scelte di scrittura.
Nelle prime tre puntate, forse per la volontà di preparare bene il terreno e per trovare il modo di appassionare subito il pubblico senza diventare troppo filosofici, Y: The Last Man è soprattutto un thrillerino post-apocalittico.
Tutto il pilot è un gran costruire di personaggi, e solo alla fine si arriva al nocciolo della questione, mentre gli altri due raccontano soprattutto di beghe politiche, problemi di successione al Presidente (che era maschio), e tutta una serie di piccoli elementi che, per l’appunto, attengono più al mondo dei generici thriller post-catastrofe, che non a un pianeta in cui sono morti tutti i possessori di cromosoma Y.
Per dirla in altro modo, tutto quello che vediamo in questo esordio è non solo legittimo, ma anche necessario a una narrazione che sia credibile. Solo che non ci basta, perché è proprio l’idea alla base dello show che, specie nel 2021, promette qualcosa che sappia di mai visto, che ci apra in qualche modo la mente, che sballotti gli stereotipi che ci portiamo dietro proponendoci una lettura originale e brillante di un presente alternativo che potrebbe avere molto di cui parlare, in un modo o nell’altro, con quello in cui viviamo.
Questo invece non succede, o succede troppo poco, lasciando l’impressione di una montagna che partorisce un topolino. Non è un difetto da poco perché, come ho ripetuto involontariamente fino alla nausea, si tratta di tre episodi, quasi tre ore di roba, e se Y: The Last Man voleva essere dirompente, sarebbe stato meglio esserlo non dico dal pilot, ma almeno dal secondo episodio.
Al momento, comunque, non vorrei essere troppo pessimista. Primo perché, se anche la serie non ha ancora affrontato come si deve i temi più fecondi, non vuol dire che li abbia eliminati dal tavolo: sono ancora lì e possono germogliare. E secondo perché alcuni critici americani hanno avuto modo di vederne sei, di episodi, e parlano di una crescita costante.
Attendiamo dunque fiduciosi (mai come in questa recensione dovrei usare un asterisco, o una schwa, per dire fiduciosə), di vedere cosa succederà, sapendo che potremmo essere di fronte a una delle serie-evento del 2021, oppure a una deludente occasione sprecata.
Ci risentiamo fra un po’.
Perché seguire Y: The Last Man: adatta alla tv una storia a fumetti che era già interessante vent’anni fa, e che potrebbe esserlo ancora di più adesso.
Perché mollare Y: The Last Man: nei primi tre episodi le grandi potenzialità del concept sono racchiuse in un compitino non sgradevole, ma col freno a mano ancora tirato.