American Rust – Showtime: metti un po’ di America profonda, anzi profondissima di Marco Villa
Tratta dal romanzo di Philipp Meyer, American Rust vede Jeff Daniels interpretare uno sceriffo stanco e disilluso
C’è un’America che quasi nessuno vede, ma quasi tutti conosciamo come se fosse nostra. È quell’America fatta di cittadine con una strada, case da una parte e dall’altra e un quartiere residenziale, quando va bene. Di sicuro c’è una vecchia fabbrica abbandonata, che era poi il motivo per cui quella città era nata e aveva prosperato, ma adesso, con la fabbrica chiusa, resta solo un grosso punto di domanda: e io cosa ci faccio qui? L’abbiamo conosciuta in decine di libri, film e serie, troppo spesso per pensare che possa essere un’invenzione di scrittura, troppo spesso per pensare che possa essercene una o poco più.
È quella che viene chiamata America profonda, trumpianamente fiera di sé e del suo essere stata grande, costruita con poche, salde certezze. Un’America allo stesso tempo desolante e desolata, che cova dentro di sé rabbia e frustrazione, perfetti carburanti per fare esplodere ogni tipo di incendio. American Rust parte proprio da qui, dall’immaginaria città di Buell in Pennsylvania, con la sua bella fabbrica abbandonata e i suoi abitanti che si dividono tra chi è riuscito a trovare il coraggio di andarsene (e magari fa la bella vita a New York) e chi invece si ritrova ancora lì, invischiato in rapporti soffocanti che gli impediscono anche solo di pensare a una fuga.
Su questo sfondo, che vale almeno metà dell’intreccio, si muovono le storie di Bill e Isaac: lui è il tipico ragazzo che al liceo era un fenomeno a football e che, appena diplomato, si ritrova uno dei tanti, perché il microcosmo della scuola non esiste più, ma è difficile abituarsi a non essere il quarterback intorno a cui tutto si muove. Isaac invece vorrebbe andarsene, ma ha un padre bloccato a letto da curare e una sorella che ha spiccato il volo e si è sposata bene a New York, appunto. Questi sono i giovani, poi ci sono gli adulti, come lo sceriffo Del Herris (Jeff Daniels, sempre inappuntabile) o la sarta Grace Poe (Maura Tierney), madre di Bill. Due adulti che hanno superato l’età in cui poter decidere se andare o restare, sono rimasti, ma non è detto che sia stata una loro scelta. Anzi. I destini di questi quattro personaggi si incrociano quando viene ritrovato il cadavere di un ex poliziotto, con cui Bill aveva avuto uno scontro: lo sceriffo, innamorato di sua madre, cerca subito di proteggerlo, ma come sempre accade in questi casi, un evento imprevisto e violento è la miccia accesa che farà deflagrare quel misto di rabbia e frustrazione di cui sopra.
Tratta dall’omonimo romanzo di Philipp Meyer (già autore di The Son, serie western anomala di AMC con Pierce Brosnan), American Rust è una serie che parte lenta, con due episodi che sono pura ambientazione. Il motivo è quello spiegato in apertura: quello raccontato dalla serie – e dal libro – è un mondo affascinante e respingente, che vale da solo buona parte del racconto e soprattutto che ha bisogno di attenzione per svelarsi in tutte le sue sfaccettature. American Rust (su Showtime dal 12 settembre e da ottobre su Sky e NOW TV, insieme proprio a The Son) è un thriller: c’è un omicidio, ci sono detective, ci sono sospettati, ma è soprattutto uno scavo dentro una comunità e i suoi membri, con tutto ciò che questo comporta in termini narrativi, ovvero meno attenzione all’intreccio di detection e grande cura nella descrizione del contesto e dei rapporti tra i personaggi. Come The Son era un western anomalo, allo stesso modo American Rust è un thriller anomalo, che ha tanti punti di contatto proprio con il genere western e che – soprattutto – ha come obiettivo quello di portare dentro un mondo. Un mondo fatto di pick up e fucili, di grandi spazi e piccole ambizioni.
Perché guardare American Rust: perché il mondo descritto vi affascina
Perché mollare American Rust: perché non sarà l’indagine rigorosa