31 Agosto 2021

The Chair – Su Netflix una comedy leggera ma non sciocca di Diego Castelli

Con The Chair, Sandra Oh smette i panni dell’investigatrice ossessiva e diventa una professoressa dalle grandi responsabilità

Pilot

Nel guardare i sei episodi della prima stagione di The Chair – nuova serie Netflix creata da Amanda Peet e Annie Julia Wyman, prodotta fra gli altri dai creatori di Game of Thrones, e tradotta in italiano come La Direttrice – si ha l’impressione di aver compiuto un viaggio breve e divertente, buono anche per una o due serate spensierate sul divano con una tazza di gelato in mano. Allo stesso tempo, però, è facile accorgersi che quello stesso viaggio è stato tutt’altro che banale, e ha toccato sì in modo leggero, ma non per questo superficiale, alcuni temi assai attuali e molto dibattuti.
Ok, la recensione potrebbe anche finire qui, tipo “sì insomma, guardatela”, ma diciamoci qualcosa in più.

The Chair racconta in primo luogo la vicenda di Ji-Yoon Kim (interpretata dalla Sandra Oh di Grey’s Anatomy e Killing Eve), una professoressa della fittizia università di Pembroke, che a un certo punto viene messa a capo dell’importante dipartimento di inglese. È la prima donna, e a maggior ragione la prima donna di origini asiatiche, ad avere quel ruolo, e quindi è ben determinata a fare bene, sapendo di dover fare fronte a diverse sfide professionali (come le iscrizioni sempre più scarse alla facoltà) e personali (tipo il rapporto non ben definito con Bill, collega professore rimasto recentemente vedovo, o quello con la figlia adottiva Ju-Hee, che è un “peperino” un po’ come Attila era un “signore a cui piaceva cavalcare”).

Sul fronte dell’intrattenimento puro, facciamo in fretta: The Chair ha buon ritmo ed è scritta con gusto e creatività sia nei dialoghi sia nella costruzione specifica di alcuni caratteri, che grazie a un casting quasi sempre azzeccatissimo portano alla nascita di personaggi teoricamente di contorno, ma subito memorabili: penso in particolare all’anziana ma ancora agguerrita Joan, interpretata da Holland Tyalor (Due uomini e mezzo, Mr. Mercedes), ma anche a un delizioso David Duchovny nei panni di un se stesso che ricorda molto il nostro amato Hank Moody di Californication.
Quindi insomma, ci si diverte e ci si affeziona ai personaggi, che sono relativamente tanti ma che in soli sei episodi riescono a costruirsi uno spessore vero, un percorso compiuto.

Questa generale piacevolezza, però, non mi sembra l’elemento più rilevante di una serie come The Chair.
A essere più importante, invece, è la sua capacità di toccare la materia viva di alcune delle questioni più rilevanti del nostro tempo. Ambientando la sua storia in una università dalla storia antica, ma in cui cominciano a sentirsi sempre più forti le spinte al cambiamento che vengono dal basso, The Chair affronta questioni che riguardano la cultura accademica (è giusto che l’insegnamento dei classici cambi le sue modalità per venire incontro a generazioni diverse?), il mondo del lavoro (ricambi generazionali, la possibilità per le donne di avere pari opportunità nel raggiungere posizioni dirigenziali), le discriminazioni etniche e religiose (si veda l’importanza e il ruolo di Yaz, la professoressa nera e giovane che deve farsi strada in un mondo di vecchi bianchi).
Soprattutto, però, a colpire è la capacità di The Chair di riconoscere, accettare e raccontare la complessità di questi temi.

Messe giù come ve le ho elecante, infatti, quelle questioni potrebbero anche dare vita a storie tutto sommato banali, in cui l’attivismo woke di questi anni potrebbe trovare un terreno fertile dove prosperare indisturbato: storie dove tutti i personaggi buoni lottano per l’inclusione di donne e minoranze, dove ogni atteggiamento problematico viene stigmatizzato, dove i giovani hanno in mano una verità che i vecchi incartapecoriti osteggiano e ostacolano dall’alto dei loro pulpiti dorati, e via dicendo.
Con The Chair non è così, perché a essere riconosciuta è proprio la complessità di situazioni che non possono essere ridotte a una manciata di slogan slegati da qualunque contesto.
Esemplare è la vicenda di Bill (Jay Duplass), il professore vedovo e mezzo depresso, spesso ubriaco, che finisce nei casini perché durante una lezione fa un saluto nazista (per spiegare un concetto e senza essere lui un nazista, evidentemente) che poi viene ripreso ed esasperato in ambito social. Nel raccontare la storia di Bill, The Chair riesce a mostrarne sia i difetti e i problemi che effettivamente, e legittimamente, finiscono col renderlo un professore momentaneamente incapace di fare il suo mestiere (mancanze magari giustificabili umanamente, ma non professionalmente), sia la shitstorm che si trova ad affrontare per il saluto nazista, e che la serie non esita a mostrare nei suoi aspetti più strumentali e ridicoli.

Non sarebbe il solo esempio, naturalmente. La protagonista, per esempio, arriva al suo nuovo ruolo con il desiderio di ammodernare la struttura che si trova a presiedere e lanciarla nel futuro, ma scopre sulla sua pelle che molte delle questioni che lei credeva semplici sono in realtà molto complicate: per esempio, è facile dire che certi ambienti vanno svecchiati, ma poi non è semplice andare dagli anziani professori a dirgli “ora tu vai in pensione, non ti vogliamo più”. Oppure pensiamo a Joan, femminista della vecchia guardia che vuole portare avanti un certo tipo di battaglie, e che si ritrova a doverle condividere con una ragazza molto più giovane che teoricamente sarebbe sua alleata, ma che gioca secondo regole e codici comunicativi che per Joan sono spesso incomprensibili.

Quest’ultimo tema della comunicazione è, in fin dei conti, quello che meglio racchiude l’essenza di The Chair: lo show presenta una serie di “blocchi” (di personaggi, di idee, di approcci alla vita, a loro volta influenzati da caratteristiche come l’età, il genere, la provenienza), ognuno dei quali crede di possedere una facile verità su come debbano andare le cose, su come si debba gestire un’università, su come si debba insegnare la letteratura, e via dicendo. E poi fa collidere questi blocchi, mostrando prima di tutto enormi difficoltà comunicative: i vecchi (o anche solo adulti) non riescono a parlare con i giovani, le donne con gli uomini, i bianchi coi neri, e la cosa interessante è che The Chair cerca di prendere meno posizione possibile, perché quello che le interessa è proprio la complessità. L’obiettivo dello show non è offrire il modo migliore e sicuramente efficace di risolvere tutti i conflitti (quello non ce l’ha nessuno), bensì mostrare le varie sfaccettature di quei conflitti, incentrandosi su una figura manageriale che, per sua natura, ha a che fare proprio con un sacco di istanze diverse, molte delle quali hanno sia ragione sia torto, a seconda dei punti di vista.
E per quanto la descrizione di conflitti sia tutto sommato il succo di qualunque storia, problematizzare quelli che nell’attimo in cui quella storia viene prodotta sono i più accesi, tignosi ed esacerbanti di una società, non è una sfida scontata. Tanto più che siamo su Netflix, una piattaforma che nel recente passato si è spesso adagiata in modo abbastanza acritico e talvolta stucchevole su certe istanze che vanno per la maggiore e che per questo vengono cavalcate sulla sottile linea di confine fra (lodevole) impegno civile e (bieco) sfruttamento dei trend del momento.

Se vogliamo imparare qualcosa da The Chair (non che sia obbligatorio, ma se si riesce è sempre una bella cosa), è l’importanza dell’ascolto, dello sforzo di comprendere le ragioni di prospettive diverse dalla nostra, nella consapevolezza che l’intransigenza a volte è necessaria e inevitabile, ma diventa un problema quando si trasforma in un “metodo” che ci porta a credere di avere ragione sempre e comunque.
Se vogliamo trovare un difetto a The Chair, invece, sta proprio nel fatto che sei episodi sono un po’ pochini. Non perché ci sia qualcosa di poco chiaro, ma perché i temi in ballo sono così tanti, che qualcuno avrebbe meritato qualche pagina di sceneggiatura in più, e magari anche un finale che, pur efficace, può sembrare un po’ troppo rapido.
Speriamo comunque in una seconda stagione.

Perché seguire The Chair: perché affronta in modo leggero ma tutt’altro che scontato una serie di temi fondamentali del nostro tempo.
Perché mollare The Chair: è una di quelle comedy che vengono presentate come comedy, ma poi non è che ci sganascia dalle risate. Sapevatelo.



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