Schitt’s Creek è su Infinity+: è il momento del recuperone di Diego Castelli
Schitt’s Creek, la serie pluripremiata agli scorsi Emmy, arriva finalmente in Italia e ci impone di rimetterci in parti
Lo scorso 20 settembre 2020, in occasione della settantaduesima edizione degli Emmy Awards, una serie comica canadese, giunta alla sua quinta e dichiaratamente ultima stagione, si portò a casa la cifra record di nove statuette “pesanti”: miglior serie comedy, miglior attrice protagonista, attore protagonista, attore non protagonista, attrice non protagonista, regia, sceneggiatura, casting, migliori costumi per una serie di ambientazione contemporanea. A queste vanno poi aggiunte altre sei candidature per le quali i premi sono andati altrove. Tutto questo per una serie che aveva ricevuto le prime sparute nomination (senza vittorie) l’anno precedente, quando già era alla quarta stagione, e che fino a quel momento, complice anche la sua totale assenza dai palinsesti italiani, molti di noi (me compreso) non conoscevano praticamente nemmeno di nome.
Quella serie era Schitt’s Creek.
Dopo questo exploit completamente inatteso (ci si scuserà se i molti premi canadesi vinti in precedenza non contavano nella nostra percezione), il senso di vergogna nel non conoscerla minimamente fu immediato e particolarmente intenso, tanto che subito dissi al Villa “com’è che ci siamo persi una cosa che ha vinto 9 emmy, bisogna rimediare, fare il recuperone!”. Al che il mio socio, sempre pragmatico, mi disse: “Non è che viene la polizia se ci siamo persi una serie importante, facciamolo pure il recuperone ma, considerando che la serie è pure terminata, non possiamo considerarlo una enorme priorità della vita”.
Santo Villa, sempre il più saggio fra noi.
Acquietata la mia ansia seriale, ma sempre con l’idea di provare a dare un’occhiata alla serie, rimaneva però una domanda interessante: ok, non ci sarà un’altra stagione, possiamo anche fare finta di niente, ma com’è possibile che una serie che ottiene un risultato del genere non venga acquistata da qualche rete o piattaforma, anche solo per sfruttare questa fama inaspettata?
Che poi era anche un grido di aiuto: se qualcuno ci dà una mano, poi diventa più facile mettersi in testa di fare il recuperone.
Ebbene, tutti aspettavano Netflix o Prime Video, perché ormai siamo abituati così, e invece alla fine a coprire il buco è arrivata Mediaset con Infinity+, che poi sono i miei collegucci di due piani sopra.
A partire da oggi, 13 luglio, la prima stagione di Schitt’s Creek è disponibile su Infinity+, uno dei canali contenuti nell’offerta più ampia della piattaforma Mediaset Infinity (che consente di abbonarsi anche singolarmente ai canali che si preferiscono). Le altre stagioni seguiranno a ruota: il 27 luglio arriva la seconda, il 9 settembre la terza, il 30 settembre la quarta, e l’11 novembre la quinta.
Sono stati proprio loro a dirmi che la serie sarebbe arrivata su Infinity+, al che io ho detto: “È un’ottima notizia e un’operazione meritevole, e a questo punto la prima stagione me la guardo per forza. Sappiate però che se non mi piacerà dovrò dirlo, perché sennò poi non ci dormo la notte”.
Loro hanno risposto: “Ma ovviamente, ci mancherebbe, poi vediamo come dormi la notte sotto un ponte, quando non avrai più un lavoro”.
Fortunatamente, non ci sono stati momenti imbarazzanti, perché la prima stagione di Schitt’s Creek è una discreta figata. Poi potete credere o meno alla mia buona fede, ma io comunque la notte la passo serenamente.
Schitt’s Creek è una comedy familiare, sia nel senso di raccontare le vicende di una specifica famiglia, sia nel senso produttivo del termine: i creatori sono infatti padre e figlio, Eugene e Dan Levy (Eugene era il mitico papà di Jim in American Pie), che nella serie interpretano proprio un padre e un figlo (Johnny e David Rose), a cui vanno poi aggiunte la moglie di Johnny, Moira (Catherine O’Hara, altrettanto indimenticabile mamma di Kevin in Mamma ho perso l’aereo, anche se qui assomiglia più alla sua Delia di Beetlejuice), e la sorella di David, Alexis (Annie Murphy, che di recente è diventata protagonista di Kevin Can F**k Himself).
All’inizio del pilot, i Rose sono una famiglia ricchissima, nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari di patrimonio, ma subito succede il patatrac: il truffaldino consulente finanziario della famiglia scappa con il malloppo lasciandoli senza un soldo, e ai Rose non resta che trasferirsi momentaneamente a Schitt’s Creek, una cittadina sperduta che Johnny a suo tempo aveva acquistato (sì, l’intera città) e che ora può offrirgli un paio di stanze quasi gratis in un piccolo motel, in attesa di vedere se e quando la famiglia riuscirà a rimettersi in piedi (o a rivendere la città, che però non sembra un’impresa tanto semplice).
Di base, la storia è tutta qui, semplice semplice, ma già il nome della città dovrebbe suggerire che la nuova sistemazione non sarà esattamente idilliaca: ok che è scritto diverso, ma a un orecchio americano la parola “Schitt’s Creek” non può che suonare, letteralmente, come “il torrente di merda”. E noi che pensavamo che “Dawson” fosse uno sfigato.
Nella cittadina i Rose fanno quasi subito la conoscenza con alcuni personaggi che saranno importanti per tutta la serie o quasi: il volgarotto, imbecille, capriccioso e sporcaccione sindaco della città, Roland Schitt (il Chris Elliott che molti ricordano come il disgustoso maggiordomo Hanson di Scary Movie 2); la sorprendentemente educata e pulita moglie di Roland, Jocelyn (Jennifer Robertson); la bella ma quasi inquietante Stevie (Emily Hampshire), proprietaria del motel.
Naturalmente, al centro della storia c’è proprio la difficoltà dei Rose di adattarsi alla nuova situazione dopo una vita passata a fare i nababbi, un problema che investe i quattro protagonisti a prescindere dalle caratteristiche più riconoscibili di ognuno: Johnny è il capofamiglia posato e razionale, ma che può perdere il controllo di fronte alla pedante idiozia del sindaco Roland; Moira è un’ex star di soap opera, appassionata di abiti eccentrici e di parrucche (le uniche cose salvate dal collasso finanziario), che è sì cresciuta in una cittadina simile a Schitt’s Creek, ma che nel frattempo si è moooolto abituata alla vita da ricca; David è il figlio maschio dalla sessualità abbastanza fluida, amante della moda ma a suo modo un po’ nerd e introverso; Alexis è la figlia femmina per la quale conta solo fare festa e divertirsi, se non fosse che appena arrivata a Schitt’s Creek mette gli occhi su un tipo barbuto, silenzioso e affascinante (Mutt) che è ben lontano dai suoi normali gusti.
Schitt’s Creek è fin da subito molto divertente, anche se come al solito dobbiamo capirci sul concetto di “divertente”. Non è una serie che punta costantemente alle grasse risate (che pure qui e là saltano fuori, specie quando la comicità si fa più fisica e meno verbale), siamo invece più dalle parti di 30 Rock, o di Scrubs, in cui a trionfare è l’invenzione divertente, il disagio dei protagonisti, l’idiozia intesa prima di tutto come possibilità per chi scrive la sceneggiatura di lavorare sull’assurdo o sull’esagerazione.
Il primo impatto è insomma gradevole in sé e per sé, la situazione è chiara, l’immedesimazione semplice (non serve essere ricconi caduti in disgrazia per sapere cosa si prova nell’essere costretti a muoversi in un contesto che non ci mette a nostro agio e che riteniamo inadatto a noi, quale che sia).
Allo stesso tempo, sapendo dove la serie finirà (cioè a un tripudio di premi), viene spontaneo provare a cercare fin da subito i semi di questa clamorosa esplosione.
A questo proposito, non so se sto prendendo una cantonata, e se magari la quarta e quinta stagione saranno semplicemente ancora più divertenti e creative di quanto non abbia visto finora (per intenderci, ho trovato la prima stagione molto gustosa, ma a lei NOVE Emmy non li avrei dati), ma il vero cuore della serie, in termini di capacità di creare affezione, mi sembra che non stia nella comicità in sé e per sé.
La qualità della scrittura di Schitt’s Creek sta soprattutto nel fatto che i suoi protagonisti, che pure sono inseriti in un concept molto chiaro all’interno di una serie comica, sono tutt’altro che macchiette. Le caratteristiche dei personaggi che vi ho riassunto poco sopra sono il loro “biglietto da visita”, ma non li esauriscono mai completamente. Moira, per esempio, è sì infastidita e terrorizzata dalla nuova situazione della famiglia, ma è anche una che sa fare buon viso a cattivo gioco e sa rimboccarsi le maniche, soprattutto quando viene coinvolta in certe attività di pieno di senso civico. Alexis è svampita e superficiale, ma può provare sentimenti veri. David sembra completamente fuori posto a Schitt’s Creek, ma riesce comunque a costruire una stranissima e sincera amicizia con Stevie.
A ben guardare, insomma, i due autori e i loro sceneggiatori e sceneggiatrici sembrano disposti a rinunciare scientemente a una certa quantità di risate facili e veloci, costruite sugli elementi più estremi del carattere dei personaggi, con lo scopo di dare a quegli stessi personaggi la possibilità di respirare, di allargarsi, di costruire una tridimensionalità.
Quello a cui si assiste già durante la prima stagione, dunque, non è uno scontro frontale fra due opposte visioni della vita, magari con la netta predominanza morale dell’una sull’altra, bensì una compenetrazione in cui tutti hanno potenzialmente qualcosa da imparare e qualcosa di cui vergognarsi.
Mi si potrebbe obiettare, a questo proposito, che una comedy dove due universi scollegati e potenzialmente avversari trovano inaspettati punti di incontro e amicizia non è esattamente questa gran novità. Anzi, è la base fondante di un sacco di commedie cinematografiche e seriali, specialmente le commedie romantiche.
Ma è proprio il concetto di commedia romantica che forse ci aiuta a capire meglio un certo stupore che mi porto appresso dopo aver visto la prima stagione: considerato il concept, il titolo volutamente un po’ grezzo, e tenuto conto anche di certe scene iniziali volutamente tagliate con l’accetta, si poteva avere la sensazione di uno show che andasse in una certa direzione. Poi invece arriva la commedia romantica, intesa non solo come elemento di interazione fra i personaggi (nella prima stagione ce ne sono almeno due, di storie romantiche nel senso classico del termine), ma anche come più generale approccio “geografico” alla storia dei Rose, in cui lo sviluppo della storia equivale anche a una scoperta, nostra e loro, di tutto quello che si nasconde sotto la patina di reciproca incomprensione fra le due realtà.
L’impressione che ho avuto, insomma, non è quella di una serie che rimarrà nel cuore per il livello assoluto della sua comicità (che pure resta più che valida), ma per la sua capacità di farci amare personaggi abbastanza ricchi di sfumature (se non di denaro, poverini) da meritarselo pienamente, quell’amore.
Vedremo se sarà davvero così. A questo punto il recuperone non si può interrompere, ai Rose voglio già un po’ bene e voglio sapere cosa gli succederà alla fine. A un certo punto tornerò a dirvi se i nove emmy all’ultima stagione erano meritati o meno (e sono certo che se io non sarò d’accordo glieli revocheranno, perché queste cose vanno così).
Ci si risente.
PS Vi do un ultimo dettaglio, piccolo piccolo, per far capire il senso di questa familiarità che si percepisce nei confronti dei personaggi. All’inizio di ogni episodio c’è il classico cartello che avverte gli spettatori della presenza di volgarità e altre situazioni non adatte ai bambini, e quel cartello ogni volta è letto dalla voce di un membro del cast, che ci mette ora un’inflessione impegnata, ora annoiata, ora palesemente infastidita. È un po’ come se la famiglia Rose fosse già lì con noi sul divano a guardare la puntata e a prendere in giro queste abitudini un po’ ingessate. Un bel pezzo dell’atmosfera di Schitt’s Creek sta già dentro qui.