Love, Death & Robots seconda stagione: stessi pregi e difetti della prima di Diego Castelli
Con Love, Death & Robots Netflix ripropone la sua animazione fantascientifica confermando molte qualità, ma inciampando nei vecchi problemi
ATTENZIONE! QUALCHE SPOILER SULLA SECONDA STAGIONE
Sono passati più di due anni ma non sembra cambiato molto, né in bene né in male.
Parliamo di Love, Death & Robots, la serie di animazione fantascientifica creata da Tim Miller, prodotta fra gli altri da David Fincher, e apparsa su Netflix per la prima volta a marzo 2019, lo stesso mese in cui ne parlavamo in questa recensione qui.
Se non avete voglia di rileggerla, il succo era questo: Netflix proponeva 18 cortometraggi animati, prodotti da studi molti diversi, offrendo una panoramica stilistica gustosamente varia e, a tratti, davvero spettacolare (5 Emmy vinti), senza riuscire però a offrire un livello ugualmente alto (salvo un paio di eccezioni) in termini puramente narrativi. Insomma, la messa in scena stilisticamente ricchissima di storie spesso banali o già viste.
All’epoca avevo ricevuto un po’ di insulti per questa opinione, che però non è cambiata nel tempo. Anzi, mi sembra che dopo due anni Love, Death & Robots non abbia impresso quel solco nella coscienza collettiva che forse sperava di lasciare, a riprova del fatto che non era un Black Mirror a cartoni animati, ma qualcosa di decisamente meno dirompente.
Ciò non toglie, però, che in previsione della seconda stagione, composta questa volta da soli otto episodi, io fossi contento e speranzoso. Perché da videogiocatore di vecchia data ho sempre avuto una smaccata fascinazione per le animazioni in CGI, per la potenza tecnica nuda e cruda che sposta sempre in avanti il limite del realismo e/o della creatività animata, e non c’è dubbio che, su questo fronte, la prima stagione di Love, Death & Robots offrisse momenti “spaccamascella”. Il formato ristrettissimo delle puntate, spesso sotto i quindici minuti, era un po’ la croce e la delizia di tutto il progetto: episodi abbastanza corti per non annacquare lo stupore visivo, ma forse troppo corti per garantire sempre una valida idea narrativa di base.
A conti fatti, tutto quello che potevamo dire della prima stagione, lo possiamo dire della seconda. Poi decidete voi quale aspetto deve pesare di più nella vostra valutazione personale complessiva.
Se guardiamo alla resa visiva, siamo ancora dalle parti dell’eccellenza, anche se la varietà di stili pare leggermente meno accentuata. Non mancano però né gli esempi di impressionante fotorealismo (“Snow in the Desert”, “Life Hatch”, “The Drowned Giant”), né quelli in cui la ricerca stilistica batte strade più stranianti (come le testone di “Automated Customer Service” o la resa pittorica e materica di “The Tall Grass”), passando per casi di animazione apparentemente meno computerizzata e più basica, primaria (“Ice”).
L’impressione è che l’approccio realistico sia stato complessivamente preferito, forse a seguito di qualche specifico feedback ricevuto da Netflix, ma in generale resta l’immagine di una serie che mostra cose che altrove non si vedono, e questo resta un grande pregio.
Sul fronte narrativo, invece, si zoppica un po’ di più. Diminuire gli episodi stagionali non ha garantito che tutti quelli rimasti fossero ugualmente ficcanti, e anzi ce n’è qualcuno in cui il concept di base resta poco più di un pretesto, come “The Tall Grass”, in cui non pare clamorosa l’idea di un tizio che si perde nell’erba alta trovandoci dei mostri umanoidi di cui non sappiamo niente altro. Idem per “Life Hatch”, in cui un astronauta con le fattezze e la voce di Michael B. Jordan finisce in quella che dovrebbe essere una cabina di salvataggio, trovandoci però un robot difettoso e pericolosissimo: oltre al fotorealismo e alla capacità di creare un’ottima suspense, non rimane molto altro.
Ci sono però anche episodi più riusciti, fra cui il migliore è probabilmente “Pop Squad”, che racconta di un futuro in cui la conquista dell’immortalità da parte degli umani ha reso pericolosa (e di conseguenza illegale) la nascita di nuovi bambini, che non vanno a “sostituire” una popolazione che scompare, bensì ad aggiungersi a un’umanità che è già fin troppo piena. Questo è un esempio della miglior fantascienza, o per lo meno la fantascienza un po’ inquietante e distopica di cui la serie vuol fare chiaramente parte, perché ci obbliga a pensare in modo critico e non banale a certi miti e aspirazioni che, alla prova dei fatti, avrebbero le loro controindicazioni, talmente potenti da arrivare a farci chiedere su cosa effettivamente si fondi il concetto stesso di “umanità”.
Altri episodi non arrivano a quella precisione tematica, ma si fanno notare per qualche buona idea, come “The Drowned Giant”, che mostra per l’appunto la reazione umana a un enorme gigante nudo e annegato, arenatosi su una spiaggia (in questo racconto gli umani diventano quasi dei microbi spazzini, in un salto bio-logico piuttosto efficace); oppure “Snow in The Desert”, in cui torna il tema di un’immortalità che diventa anche condanna alla solitudine, a meno di trovare conforto in qualcosa di inaspettato; oppure ancora “All Through the House”, in cui due bambini scoprono che Babbo Natale porta sì i doni ai bambini buoni, ma è anche un mostro terrificante uscito di peso da un film horror sugli alieni.
Quest’ultimo esempio, forse, è il migliore per simboleggiare una certa sensazione di coitus interruptus, come se la serie, compressa nei suoi episodi cortissimi, non potesse fare altro che lanciare piccole suggestioni, senza avere il tempo di approfondire nulla. Forse non è un caso che l’episodio che mi pare più riuscito, il già citato “Pop Squad”, è anche uno dei più lunghi della stagione.
Mi si potrebbe obiettare, in piena legittimità, che se il concetto è quello di offrire dei cortometraggi d’animazione, allora non si esce dalle forme, per l’appunto, del cortometraggio, che punta a stupire e lanciare semi di riflessione, più che affrontare discorsi complessi e articolati, per i quali non ha lo spazio necessario.
Però se stupore deve essere, che stupore sia, cosa che Love, Death & Robots non riesce a raggiungere sempre, tanto più che, se parliamo di serie tv (e LD&R lo è), un tale sparpagliamento di stili e tematiche non aiuta a evidenziare quel filo rosso che solitamente pretendiamo dalle antologie.
Insomma, quando parlo di Love, Death & Robots mi sembra sempre di partire gioioso e poi finire plumbeo, e si sa che poi la gente si ricorda sempre l’ultima cosa che hai detto, non la prima.
Mettiamola così: è una serie che fa vedere cose belle, che lo fa in fretta senza lasciare alcuna possibilità di annoiarsi, e di cui guarderò con gusto la terza stagione (se mai ci sarà). È solo che, da due anni a questa parte, spero sempre che Love, Death & Robots diventi una cosa così potente da doverla consigliare anche al mio panettiere, e invece no.
Pazienza, ci accontentiamo lo stesso.