Your Honor series finale: cosa gli vuoi dire a Bryan Cranston? di Diego Castelli
Nell’ultimo commento a Your Honor, rendiamo grazie alla serie per averci restituito uno dei nostri attori più amati, in forma smagliante
Fra i molti poteri della serialità (televisiva ma anche cinematografica) c’è sicuramente quello di appiccicare in maniera indelebile le facce ai personaggi. Se sei il/la protagonista di una serie di successo, e per cinque, dieci o vent’anni ti presenti nelle case della gente facendo sempre le stesse cose, con gli stessi abiti, la stessa voce e lo stesso carattere, le persone ti ricorderanno per sempre in quel ruolo. Una lama a doppio taglio, naturalmente, perché essere legati a doppio filo a un personaggio molto amato (o molto odiato, ma comunque d’impatto) è certamente una bella cosa, ma suppongo che essere ricordati soprattutto per una serie di due decenni fa, quando negli anni successivi si è fatto anche altro, possa essere potenzialmente frustrante.
E volendo parlare del finale di Your Honor, e soprattutto del suo protagonista Bryan Cranston, questo discorso diventa quasi inevitabile.
Bryan Cranston è Walter White di Breaking Bad. E sempre sarà Walter White di Breaking Bad.
Certo, chi l’ha conosciuto prima come padre di Malcolm in Malcolm in the Middle lo adora anche per quello, ma non ci sono dubbi che la sua fama planetaria sia legata alla figura di un povero professore malato e spiantato, che in nome di una rivincita verso l’universo diventa un boss del crimine.
Con il suo Walter White, così radicalmente diverso dal buffo padre di famiglia che aveva interpretato nella serie precedente, Cranston trovò la sua vera dimensione attoriale, un miscuglio di apparente debolezza, segreta determinazione, profonda rabbia e spiccata intelligenza che gli valse quattro Emmy, un Golden Globe e svariati altri premi e candidature. E da allora, naturalmente, ha segnato il suo destino: complice anche un’età non più giovanissima, non ci sono molte probabilità che Cranston riesca, da qui alla fine della sua carriera, a ricoprire ruoli che siano in grado di prendere a spallate Walter White e sostituirlo nella percezione collettiva legata a quel volto e quella voce.
Non che Cranston non ci abbia lavorato su, in questi anni, con risultati alterni: dai Tony Award vinti per gli spettacoli teatrali All the Way e Network (che però non arrivano al pubblico mondiale), alla nomination agli Oscar per Dalton Trumbo, passando per altri progetti magari più visibili ma meno riusciti (come il remake di Quasi Amici), Cranston non è certo rimasto come le mani in mano, ma la verità è che non è riuscito a scrollarsi di dosso l’immagine di Walter White. Non che lo volesse, magari non gliene frega niente, ma di certo l’ombra lunga dell’abilissimo chimico lo copre ancora interamente.
È anche per questo che la sua interpretazione in Your Honor, per la quale ha appena ricevuto la sua ennesima candidatura ai Golden Globes, ci trasmette sensazioni tutte particolari.
La trama, che avevamo già introdotto dopo il pilot, lo vede nei panni di uno stimato giudice, Michael Desiato, che si trova catapultato in una situazione terribile: suo figlio Adam uccide in maniera del tutto fortuita un altro ragazzo, Rocco, che si scopre essere figlio di un importante boss della mala. Dapprima intenzionato a portare il Adam alla polizia e fare le cose per bene, il giudice si rende conto che la giustizia non riuscirà a proteggere il ragazzo dalla vendetta del boss Jimmy Baxter, e decide quindi di nascondere la verità, a costo di far incolpare un altro giovane innocente.
La sensazione strana, nel guardare Your Honor da fan di Breaking Bad, sta nel fatto che ci sembra di rivedere in piccolo lo stesso percorso: un uomo tranquillo, ben incorniciato in una vita molto chiara e precisa, riceve un ceffone così forte che lo porta a deragliare dal suo percorso, come un animale messo all’angolo che, nonostante un’indole solitamente pacifica, è disposto a tutto per sfuggire al pericolo.
Senza ulteriori spoiler (che facciamo più sotto), Your Honor racconta nuovamente di una discesa agli inferi, della capacità di un uomo di scendere a compromessi sempre più oscuri in nome di un obiettivo per cui tutti si cancella e tutto si perdona. Un processo, naturalmente, tutt’altro che indolore, in cui la paura, la tensione e il senso di colpa crescono di puntata in puntata fino al necessario climax finale.
All’inizio della miniserie, tratta dall’israeliana Kvodo, questo ricalco può suonare un po’ indigesto, come se ci desse fastidio vedere il nostro Bryan “costretto” a riproporre uno schema già esplorato. O almeno così l’ho sentita io.
Allo stesso tempo, però, come non ci stanchiamo nel sentire una band molto amata produrre un nuovo album usando il suo stile riconoscibile, o nel guardare l’ennesimo film di una saga che adoriamo, quando uno è bravo, è bravo. E cazzarola se è bravo Bryan Cranston.
Prima di dedicarci al finale della miniserie, per chi volesse abbandonare la lettura in questo momento per poi magari tornare in futuro (Your Honor arriverà su Sky Atlantic il prossimo 24 febbraio), sappiate solo questo: che sì, magari il percorso compiuto dal personaggio di Bryan Cranston ci suona in qualche modo “già visto”, ma questo nulla toglie alla bravura di un attore in cui non c’è sentimento o emozione che non riesca ad affiorare sulle pieghe di un viso che davanti alla cinepresa era e resta devastante.
DA QUI IN POI SPOILER SUL FINALE DI YOUR HONOR
I vari episodi che compongono la miniserie costruiscono una tensione sempre maggiore, che trova almeno un punto di svolta importante quando Jimmy Baxter si rende conto che a uccidere suo figlio non è stato Kofi Jones, il ragazzo nero già ammazzato dall’altro suo figlio Carlo, bensì (così crede lui) il giudice Desiato.
Se fino a quel momento il giudice aveva dovuto gestire una pressione non indifferente, rimanendo però al riparo nell’ombra, la scoperta (errata, ma comunque decisiva) di Jimmy lo mette sotto un riflettore che influenza la sua vita in modo ancora più decisivo: per salvarsi dalla vendetta di Baxter, già pronto ad aprirgli un buco in testa, Michael lo convince del fatto che, nella sua posizione di giudice, riuscirà a salvare Carlo dalla condanna per l’omicidio di Kofi Jones, per il quale nel frattempo è stato incriminato (naturalmente rivelare la verità a Jimmy, cioè il fatto che Rocco è stato ucciso da Adam, è fuori discussione).
La serie, scritta da Peter Moffat (che già aveva firmato quel gioiellino di The Night Of) non sbaglia praticamente un colpo nell’incastrare le diverse trame, impedendo al protagonista di trovare una soluzione ai suoi problemi, ma anzi presentandogli un nuovo impiccio (o anche due) non appena gli sembra di aver risolto quello precedente.
Il finale, in questo senso, è un meraviglioso, tragicissimo crescendo in cui l’impalcatura di bugie e segreti costruita da Michael comincia a perdere in pezzi, in una sfida continua e infine perdente fra la sua intelligenza e quelle dei personaggi che gli stanno intorno, a cominciare dalle diverse donne che a vario titolo seguono la sua vicenda (poliziotte, avvocate e quant’altro).
Lo sgretolamento è lento ma alla fine inesorabile: Michael è già impegnato a proteggere Carlo, che alla sbarra viene messo di fronte a prove che sembrano inchiodarlo alle sue responsabilità, e nel frattempo scopre che sempre più persone conoscono il suo segreto. Ed è proprio l’impossibilità di tenere ulteriormente nascosta la verità (la vera verità, cioè il ruolo di Adam nella morte di Rocco) che fa precipitare tutto: per ironia della sorte, Michael riesce effettivamente a far assolvere Carlo, cosa che dovrebbe metterlo al sicuro dalla vendetta di Baxter, ma durante il processo lo stesso Baxter, notando il problema di Adam con l’asma, si rende conto che è lui il vero colpevole della morte del figlio.
Nell’ultima scena, Adam viene invitato a casa Baxter (nel frattempo, come ulteriore beffa, Adam si era messo a frequentare la figlia di Jimmy), e qui si consuma la tragedia. Ma tragedia vera, nel senso anche narrativo, retorico del termine: Michael arriva tutto trafelato nel tentativo di salvare il figlio, che però alla fine muore comunque, ma non per mano di Baxter. A uccidere Adam e lasciarlo in una pozza di sangue non tanto diversa da quella in cui giaceva e soffocava Rocco, nel primo episodio, è il fratellino di Kofi, riuscito a intrufolarsi nella casa proprio grazie all’involontario aiuto di Michael, che in quel momento stava litigando con le guardie del corpo di Jimmy.
Il cerchio dunque si chiude: la storia si apre e si chiude con la morte di un ragazzo che non la meritava, e quasi tutte le vere colpe (se escludiamo la vita criminosa di Jimmy, naturalmente) ricadono proprio su Michael, in quelle che sembrano le conseguenze di un classico patto col diavolo: nell’accettare la possibilità di compiere il male per il proprio tornaconto (cioè per salvare il figlio) Michael viene punito con il compiersi dell’evento che tanto voleva evitare, con l’aggravante che ora la colpa è pure sua (così come, indirettamente, era sua la colpa della morte di Kofi Jones e della sua famiglia).
Non credo che l’intento di Peter Moffat fosse quello di darci precise indicazioni morali, tipo “fate ciò che è giusto anche se un mafioso vi punta una pistola alla testa”, niente di così pacchiano. Ma la forza della tragedia (in questo caso tragedia quasi greca, perché la mancata personificazione degli dèi non ci impedisce di vedere all’opera un Destino beffardo) sta da millenni nel mostrare la nostra umanità nella sua forma più fragile e dolorosa, per darci maggiore coscienza di noi, del nostro piccolo posto dell’universo, e forse anche per farci premere “stop” tirando un sospiro di sollievo di fronte al fatto che la nostra vita non è così incasinata.
In tutto questo percorso, Bryan Cranston.
Con un numero di episodi molto più ridotto rispetto a Breaking Bad, a Cranston veniva chiesto di assorbire su di sé una complessità e un cambiamento che nessuno degli altri personaggi è stato costretto a subire: non Baxter, che era e resta un boss malavitoso; non Adam, che dall’inizio alla fine è un ragazzo sensibile e un po’ ingenuo; non Gina, moglie di Jimmy, malvagia e terribile in ogni scena; e via dicendo.
Tutti gli altri membri del cast ricoprono ruoli precisi che cambiano relativamente nel corso della storia, e che hanno una precisa funzione, cioè quella di mandare Michael fuori di testa.
Al centro di tutto, Bryan Cranston ha il compito di dare al suo personaggio un’anima precisa, ma allo stesso tempo una straordinaria variabilità: c’è il giudice retto e carismatico, che opera per la giustizia, ma c’è anche il funzionario ricattato disposto a usare il suo potere a proprio vantaggio; c’è il padre affettuoso dall’abbraccio facile, ma c’è anche l’occultatore di cadaveri che si affanna per buttare un corpo in acqua; c’è la vittima terrorizzata dalle circostanze, ma anche il professionista navigato che ne ha viste tante e sa come farsi rispettare, talvolta pure dai cattivi che gli puntano addosso la pistola.
Per ognuna di questi condizioni, più altre che non ho elencato e con tutte le sfumature in mezzo, Bryan Cranston funziona sempre. Ogni volta. In ogni scena è sempre presente, preciso, perfettamente credibile in quelle che sono le deviazioni da un personaggio-base di cui percepiamo l’esistenza, anche se nella miniserie non lo vediamo quasi mai, perché osserviamo sempre una sua versione distorta, impaurita, incazzata.
Cranston ha la voce splendida, profonda e rasposa del “I am the one who knocks”, ma a stupire è la sua completa padronanza di ogni singolo dettaglio del suo viso, su cui passa tutto, spesso senza che siano necessarie parole, e quasi sempre con la necessità che il pubblico si accorga di cose che gli altri personaggi non devono notare, come se una certa chiarezza di sentimenti dovesse sempre essere resa opaca da una patina di compostezza e professionalità.
Al netto della precisione della scrittura, alla fine del decimo episodio (diretto, guarda un po’, dallo stesso Cranston) ci rendiamo conto che, fin dall’inizio, metà della potenza di Your Honor doveva essere affidata alla persona che avrebbe interpretato questo protagonista straziato, devastato, buttato in un tritacarne di cui nemmeno conosceva l’esistenza.
In questa prospettiva, poco conta che Breaking Bad sia servita o meno come prova effettiva del fatto che fosse adatto alla parte; né ci interessa che Michael Desiato lasci un segno più profondo di Walter White (non lo farà); e non è fondamentale che si porti a casa un altro premio, in una lotta molto agguerrita con gente di peso come l’ottimo Hugh Grant di The Undoing o l’istrionico Ethan Hawke di The Good Lord Bird.
A contare è una sola cosa: per Your Honor non si poteva trovare nessuno migliore di sua maestà Bryan Cranston.