Vikings series finale – Eredità, miti e leggende di Diego Castelli
Si conclude la saga vichinga di History, che chiude un discorso lungo sette anni
ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTO IL FINALE
E fu così che arrivammo alla fine di Vikings.
È stato così strano, questo ultimo anno, che sembra quasi aver fatto tabula rasa di tutto, come se l’intervallo imposto a molte serie (e in qualche modo alle nostre vite) avesse allontanato nel passato tutto quello che guardavamo solo un anno fa.
In questo senso, la seconda tranche della sesta stagione, arrivata il 30 dicembre su Tim Vision a neanche un anno dalla fine del blocco precedente, sembra essersi trascinata fino a noi da un chissà quale passato remoto, un passato in cui forse avevamo già relegato la serie, troppo identificata col mondo e le esperienze pre-pandemia.
In realtà, però, questo lungo finale si merita la dovuta attenzione, sia per i consueti valori tecnici che brillano intonsi in questo freddo inverno di clausura, sia perché il discorso iniziato ormai nel lontano 2013 viene portato a termine con lodevole coerenza, anche se quella stessa coerenza diventa, paradossalmente, motivo di qualche piccola criticità.
Il discorso che sottende l’intera serie riguarda, molto banalmente, la parabola di Ragnar e della sua stirpe. Tutta o quasi l’esperienza vichinga viene legata a doppio filo alla vita del buon Lothbrok, e attraverso i suoi figli mostra l’inevitabile scontro con la realtà della leggenda rappresentata dal capostipite. Il peso della figura di Ragnar, che non ha mai smesso di farsi sentire nonostante il personaggio sia morto da anni, diventa inevitabilmente la chiave interpretativa migliore di tutta la saga.
A questo proposito racconto una cosa che può sembrare campata per aria. A Natale mi hanno regalato una maglietta simpatica su cui erano stampate numerose sagome senza volto di famosi personaggi televisivi, ognuno associato a un’ipotetica “professione”, con in alto la scritta “qual è il lavoro più giusto per te?”. Come potete immaginare c’era Sheldon Cooper associato al mestiere di fisico, Walter White era un chimico, Don Draper un direttore creativo, e così via. Sulla maglietta c’è anche Ragnar, sotto il quale un designer evidentemente scaltro ha scritto “esploratore”. Non conquistatore o guerriero: esploratore.
Ed è una definizione molto giusta, perché Ragnar, nel percorso della serie, è stato soprattutto questo, in senso fisico e metaforico: un esploratore di nuovi territori, ma anche di nuove culture e, rivolto all’interno, della propria psicologia e delle proprie credenze.
Il tema del viaggio, simboleggiato fra le altre cose dall’amicizia stressissima con l’amico Floki, costruttore di navi, è fondamentale per comprendere il personaggio di Ragnar, e capire quanto la sua spinta verso l’ignoto non fosse solo una brama di ricchezze materiali, ma anche il tentativo di raggiungere una coscienza maggiore e più piena del mondo, dopo che il suo villaggetto e i suoi piccoli dèi nordici cominciavano a stargli stretti.
La morte di Ragnar non rappresenta solo la dipartita di un personaggio, ma anche il frangersi e lo spezzettarsi di un’idea. L’eredità di Ragnar, un uomo troppo grande per poter trovare un unico discendente, viene spartita fra tutti i suoi figli, così che ognuno di essi riceva un pezzo del padre: Bjorn riceve il valore in battaglia e l’amore per la patria, Ivar riceve l’intelligenza e la strategia, e via dicendo.
Dopo la morte del capostipite, Vikings diventa allora il racconto della sua progenie anche nel senso della progressiva dispersione e intorbidimento delle sue idee e del suo insegnamento culturale, in una sorta di analisi antropologica che mostra l’importanza dello slancio vitale degli uomini verso la conoscenza e l’espansione di sé, ma anche l’inevitabilità dei loro difetti e delle loro miserie.
Per questo la seconda parte della sesta stagione è perfettamente coerente con il percorso dell’intera serie, perché ci mostra gli ultimi momenti di quella progressiva dispersione, fino a quella che ci sembra la morte stessa dei vichinghi come popolo, la cui eredità culturale e mitica rimane radicata in Europa, ma senza la possibilità di una vera prosecuzione della loro stirpe, completamente fagocitata dalle popolazioni cristiane e, più in generale, da un Nemico che finirà col vincere tutto e che avrà molti più discendenti (fra cui noi).
Bjorn muore guidando le sue truppe, in una battaglia in cui la sua aura di invincibilità trova un’ultima, quasi soprannaturale conferma, ma che finirà incatenata in una statua pure un po’ inquietante, subito diventata feticcio pagano. Ivar “spreca” la sua intelligenza in una brama di conquista e potere che era solo una parte, e nemmeno importante, dell’insegnamento del padre: la sua mente brillante viene messa al servizio della guerra e dell’intrigo, e in questi episodi lo vediamo perfino smarrito, quando organizza spedizioni il cui unico scopo è non annoiarsi e non finire così in lotte fratricide, fino a una morte che ha ben poco di epico, e trasmette il senso di un’esistenza sostanzialmente sprecata dietro a un vago desiderio di vendetta per le sue condizioni fisiche. Hvitserk resta il fratello più sfigato di tutti, che esplicitamente si chiede cosa abbia fatto della propria vita e del lascito di Ragnar, visto che si è sempre limitato a seguire qualcun altro. E infine Ubbe pare essere l’unico capace di raccogliere l’eredità da esploratore del padre, arrivando con i suoi sulle coste dell’America e costruendo con Othere uno dei dialoghi più significativi di questo finale, in cui viene pronunciata una frase la cui eco risuona ben oltre il tempo storico dei vichinghi: “Se scopri una terra ma ti comporti esattamente allo stesso modo di prima, allora sarà uguale alla terra che hai lasciato”.
Il problema, per Ubbe, è che questo ruolo di esploratore non è certo frutto della stessa spinta culturale del padre, né supportato dalla medesima capacità e ardimento: in qualche modo ci si ritrova a fare l’esploratore, e nelle terre più fertili d’America ci arriva più che altro perché fugge dalla follia di altri suoi compagni. Diventa quindi l’erede formalmente più vero di Ragnar, ma senza nemmeno una briciola del suo carisma e della sua capacità di segnare un’epoca. In fondo, tutti i figli di Ragnar sono pallide imitazione di una specifica qualità del padre.
Insomma, come abbiamo visto il percorso di Vikings arriva a una conclusione coerente e ben costruita, certamente malinconica, ma che riesce a trasmettere perfettamente il senso di un’epoca che cambia, lasciando però alle vecchie glorie tutta la loro dimensione mitica.
E qui arriviamo a quello che è probabilmente l’unico vero problema di questi ultimi episodi, che come al solito sono stati caratterizzati da un’ottima messa in scena, una cura maniacale nella composizione delle inquadrature, nell’uso delle luci (sempre capaci di sottolineare i momenti più importanti, ma senza dimenticarsi l’umanità dei personaggi), e la consueta forza bruta quando si tratta di raccontare battaglie, ammazzamenti, spargimenti di sangue.
Il problema è che, morto Bjorn, non rimane quasi più nessuno.
Inutile girarci intorno: la fama di Vikings si è costruita intorno alle vicende di Ragnar, di Lagertha, e infine anche dello stesso Bjorn adulto, che nonostante il facciotto un po’ pacioso di Alexander Ludwig è riuscito a costruirsi un carisma tutto suo, diverso da quello del padre, ma comunque di grande impatto. Persi questi, e perso da tempo anche Floki che torna solo verso la fine, Vikings diventa troppo leggerina, e l’immagine degli ultimi istanti di vita di Bjorn diventa la scena più epica dell’intera metà stagione, con l’unico problema che arriva all’inizio.
Certo, rimane Ivar, che però era e resta sostanzialmente un cattivo, un uomo meschino, la cui meschinità è anche giustificata, ben costruita, e sostanzialmente perdonabile, ma che difficilmente può incarnare l’epica guerriera che ha fatto da spina dorsale della serie finora.
Il risultato sono episodi di grande valore formale e tematico, ma un po’ spenti in termini di pura capacità di appassionare, perché i personaggi di cui è rimasto da raccontare sono quelli meno amati.
L’eccezione, naturalmente, è il ritorno di Floki, che però serve nuovamente ad aumentare la malinconia. È ancora un Floki capace di portare avanti l’eredità esploratrice del lontano amico Ragnar, considerando che arriva per primo sulle coste dei futuri Stati Uniti e sa mescolarsi proficuamente con i nativi, ma è anche un personaggio invecchiato, che ha smesso di combattere, che non ha perso il suo sorriso quasi demoniaco, ma che non può più essere il protagonista di alcuna storia. Un uomo che, per sua stessa ammissione, ha capito che la vera pace può venire solo dal dimenticare il passato e non curarsi del futuro, limitandosi a vivere il momento presente.
È proprio in Floki, interpretato da un Gustaf Skarsgård che ormai fa fatica a impersonare qualunque personaggio senza che noi si dica “guarda, c’è Floki”, che la serie sembra trovare la chiusura più definitiva, e non a caso l’ultima inquadratura è per lui e Ubbe, seduti in riva al mare. Il viaggio è finito, è stato pieno di meraviglie e di sorprese, ma ora a vincere è la brama di riposo e la necessità di lasciare che la Storia faccia altri corsi.
La cosa buona, però, è che le gesta di Ragnar e Floki, per quanto terminate, non saranno dimenticate.