The Boys 2 – Un ritorno in continuità. Che è un bene. di Diego Castelli
Diamo un’occhiata ai primi tre episodi della seconda stagione di The Boys, una delle migliori novità dello scorso anno
ATTENZIONE! SPOILER SUI PRIMI TRE EPISODI DELLA SECONDA STAGIONE
Ma che bello poter parlare della seconda stagione di The Boys.
E lasciatemelo dire: che bello poter parlare soltanto di tre episodi, perché gli altri arriveranno uno alla volta.
Ahhh, che ossigeno, che gioia, che ordine, che tranquillità.
Ok, il motivo è il Covid, ma ormai lo sapete che qui odiamo il binge watching. No dai, non si può dire che “odiamo il binge watching”, visto che lo pratichiamo serenamente ogni volta che vale la pena farlo e che ci è più o meno imposto, ma allo stesso tempo lo consideriamo un sostanziale tradimento della forma seriale. Qualunque serie guardata in binge (stiamo parlando di serie appena uscite e viste per la prima volta, non di recuperoni di cose vecchie) diventa automaticamente un lungo film, e invece noi siamo sempre felici quando una stagione ci accompagna per qualche settimana, o magari mesi, e si lascia gustare, centellinnare, e magari ti fa anche incazzare e aspettare: le serie tv per noi son quella roba lì.
Scusate il momento-anzianità.
Torniamo a noi. Primi tre episodi di una delle migliori novità dell’anno scorso, che ci aveva convinto fin da subito e che poi aveva confermato le sue qualità con una prima stagione scritta benissimo e interpretata ancora meglio, divertente e provocatoria, grottesca e stupidona ma anche stratificata, intelligente e politicamente impegnata. Una serie sui supereroi capace di prendere quei supereroi e trasformarli in strumenti con cui parodiare il mondo (quello in cui viviamo) che li ha creati e li crea.
E se i primi tre episodi della seconda stagione, inserendosi nel solco della storia tracciata dalla prima, non possono essere ugualmente dirompenti, allo stesso tempo proseguono il discorso iniziato con apprezzabile coerenza, piazzando i tocchi di classe e le piccole e grandi novità che ci aspettavamo di trovare, e soprattutto confermando uno dei molti pregi della serie, cioè una grande densità narrativa e tematica: in tre episodi succedono un sacco di cose e si riflette su un sacco di argomenti, tanto che a cercare di tenerli dentro tutti si rischia di scrivere una recensione più lunga degli episodi stessi.
Alla base di tutto c’è sempre la sfida fra un gruppo di umani senza poteri capitanati da Butcher (ma anche, lo vedremo meglio a breve, da Hughie), e i supereroi della Vought. Una sfida che poi si divide in varie sottostorie diverse: il tentativo congiunto di Hughie e Starlight di rendere pubblica l’esistenza del composto V; la speranza da parte di Butcher di riabbracciare la moglie, passando attraverso la cattura di un super-terrorista che in realtà è il fratello di Kimiko (e che terrorista non lo è per niente povera stella); gli sforzi disperati da parte di The Deep di tornare nei Seven superando le proprie fragilità e insicurezze (passando per l’adesione a una specie di setta); le faide interne alla Vought, in cui la leadership di Mr. Edgar (il nostro amatissimo Giancarlo Esposito) si scontra con quella di Homelander, che a sua volta deve vedersela con l’arrivo di Stormfront, una supereroina che nel giro di tre episodi fa vedere tutto il contrario di tutto, con discreta confusione da parte del biondo leader dei super.
Parlando di Stormfront è bene fermarsi un momento. Se c’è un pregio di The Boys, è quello di saper lavorare sui suoi personaggi, che pur essendo inseriti in una cornice ricchissima di eventi e d’azione, riescono ad evolvere e sfaccettarsi come nel migliore dei drama. Ed è proprio a partire dalle tensioni fra e dentro i personaggi, nel sondare lo scarto fra ciò che simboleggiano e ciò che sono, che The Boys riesce a tirare fuori buona parte della sua carica eversiva e del suo impegno politico e filosofico. A partire da Homelander, naturalmente, che ancora di più in questi primi tre episodi stagionali mostra di non essere semplicemente un “Superman cattivo”, concetto che potrebbe far pensare a ribaltamenti tali per cui una certa nobiltà e carisma della versione più iconica del supereroe resterebbero tali anche nella sua versione oscura. No, Homelander non è nobile, e non ha carisma. È pazzo, viscido, roso da un egoismo invincibile che sfocia nell’infantilismo più irritante. Fa paura, certo, ma non è la paura che si prova di fronte a una mente sopraffina che può manipolarci, bensì il terrore primordiale che si può avvertire al cospetto di una bestia feroce. In questo senso, Homelander è la vera e spietata versione parodica dell’America, quell’America piena di armi, con i muscoli grossi, ma senza il cervello e l’empatia per usarli come si deve. Le sue scene con il figlio, in questi episodi, sono terribili proprio perché mostrano un uomo incapace di ottenere ciò che vuole (l’amore del ragazzo, ma anche il risveglio dei suoi poteri) senza usare l’unico linguaggio che conosce, cioè quello della coercizione e della violenza.
Ed è qui, di fronte a lui, che arriva Stormfront. Interpretata da Aya Cash (che da queste parti apprezziamo dai tempi di You’re The Worst), Stormfront è l’equivalente di Tempesta degli X-Men, un’eroina capace di controllare la furia degli elementi e, nello specifico, di spare fulmini a destra e a manca. Anche Stormfront è una cattiva, ma di tipo completamente diverso rispetto a Homelander. Prima di tutto perché non ci accorgiamo subito della sua vera natura, tanto che nelle prime scene siamo perfino portati ad apprezzarla. Ma soprattutto perché la sua non è una malvagità immediata, istintiva, infantile, bensì calcolata e programmata.
Appena arriva sulla scena, Stormfront è tutta presa da una diretta social che lascia stordito lo stesso Homelander, come un boomer preso in contropiede da un millennial (o uno di quelli che vengono dopo, non so più come si chiamano). Nel corso dei minuti, Stormfront stringe una rapida amicizia con Starlight, e nel vederla avvicinarsi al terribile Homelander con spavalda sufficienza siamo portati a pensare che possa essere una preziosa alleata dei buoni.
Non solo, e qui viene la parte importante: a Stormfront viene affidato il ruolo della femminista. Prima che la sua vera natura venga rivelata nel terzo episodio, in cui ammazza la qualunque per catturare e poi uccidere con morbosa violenza il fratello di Kimiko, Stormfront ha passato le due ore, due ore e mezza precedenti a fare la giovane donna simpatica, gagliarda, consapevole, soprattutto woke. Si veda per esempio la scena in cui contesta diversi punti della sceneggiatura per il nuovo film dedicato ai Seven, sottolineando come nella storia i personaggi femminili siano relegati a ruoli stereotipati e poco importanti.
Sembrerebbe insomma una figura appositamente inserita per cavalcare l’onda dei tempi e mettersi dalla parte giusta della storia, come si suol dire. Ma sarebbe una mossa banale per una serie come The Boys, che infatti prende quel personaggio e lo fa diventare un villain fatto e finito.
Dobbiamo pensare che The Boys sia una serie reazionaria che vuole parlare male del femminismo? Direi di no. Prima di tutto perché si vede che non è così (che analisi, eh?), e poi perché il problema non è il femminismo o il tanto chiacchierato politically correct: la rivelazione della malvagità di Stormfront non è costruita per mettere in dubbio la bontà di quello che dice in altre situazioni. Quello che però la serie fa, e che ha sempre fatto, è andare dietro le quinte. Con il personaggio di Stormfront – il cui ingresso segue una scena assolutamente deliziosa in cui Homelander boccia (e quasi ammazza) il nuovo potenziale membro dei Seven, scelto perché non vedente e quindi ottimo dal punto di vista del marketing – The Boys esorta chi guarda a non fermarsi mai alla superficie delle cose, cercando quindi di coglierne tutti i lati possibili, specialmente considerando quanto ormai siano pervasive le capacità di manipolazione dei protagonisti dei media e quanto feroce sia la loro determinazione nell’essere sempre immersi in una luce benevola ed economicamente profittevole, a prescindere dalle loro reali intenzioni.
E se ci sono personaggi che dicono cose buone nascondendo però una natura malvagia, ce ne sono altri che erano partiti malissimo, e che ora affrontano un difficile (e potenzialmente fallimentare) percorso di redenzione: parliamo di The Deep, naturalmente, che l’anno scorso aveva tutta una parabola sua che io trovai un po’ slegata dal resto, e che ora riesce a rientrare nel racconto proprio come quello che sì, era un molestatore viscidone, ma la cui psicologia non può necessariamente essere ridotta a quello (anche se per ora non è certo un “buono”, caso mai uno talmente complessato a cui si può concedere almeno un po’ di pietà).
Insomma, The Boys è ancora The Boys, una serie la cui “scorrettezza” non viene dall’ammontare di sangue o di capodogli trafitti, ma dalla ferrea volontà di non fermarsi mai alle apparenze, cercando il marcio anche dove, per quieto vivere, si potrebbe non cercare. E questo senza mai diventare stucchevole o retorica, ma cercando sempre la sorpresa e l’invenzione, stemperando i discorsi potenzialmente più complicati con schiaffi in faccia allo spettatore che servono a svegliarlo da qualunque torpore, portandolo a ragionare su ciò che sta guardando e sulle implicazioni che si porta dietro.
Uno stordimento che in fondo è anche quello di Hughie, tuttora la persona più normale della serie. E mi fa piacere concludere su di lui perché l’elemento che forse ho apprezzato di più di questi primi episodi è proprio il suo ruolo, quello di uno che non ce la fa più. In una serie superficialmente irrealistica, che però vuole toccare temi e riflessioni ben radicate nella realtà, quello di Hughie è forse il personaggio più verosimile di tutti. Quante volte, in film e serie, abbiamo visto uomini e donne perfettamente normali che messi in situazioni-limite scoprivano di avere eccezionali risorse emotive e razionali per far fronte alle avversità? Ecco, trovo fantastico il fatto che Hughie non le abbia, o le abbia solo in minima parte. In questi tre episodi è quasi sempre sopraffatto dagli avvenimenti, tanto che arriva vicino a spegnersi completamente (specie nella scena del capodoglio): di fronte alle avversità più atroci che il destino gli mette davanti, Hughie prova effettivamente a combinare qualcosa, ma arriva a un tale punto di frustrazione da non riuscire più a muoversi, da voler rinunciare a tutto, fino al momento in cui, per impedire che Starlight debba tradirsi con Homelander, le fa cenno con la testa che gli sta bene che lei lo uccida. Come detto, è certamente per salvarla, ma negli occhi del giovane leggiamo anche una disperata richiesta di pace, come se fisicamente non fosse più in grado di star dietro a questa guerra fra supereroi e criminali da strapazzo, in cui lui non ha voce in capitolo.
Ma in realtà, naturalmente, sono proprio la sua normalità e la sua determinazione a non andare oltre certi limiti, che rappresentano ciò che serve a Butcher e gli altri per restare umani. Perché The Boys, alla fin fine, racconta soprattutto della sfida fra chi detiene il (super)potere, che corrompe quasi sempre specie quando è troppo, e chi invece il potere non ce l’ha, e gli oppone la sua fragile ma lodevole umanità.
Attendiamo di scoprire quali altre sorprese ci riserverà il resto della seconda stagione. Sono convinto che la riflessione filosofica sottesa alla serie ci regalerà altre preziose scoperte, ma anche che il probabile scontro fra Homelander e Stormfront potrebbe diventare la battaglia più splendidamente malata e caciarona dell’anno.