2 Settembre 2020

L’entusiasmo per Buffy su Prime Video c’entra solo in parte con Buffy di Diego Castelli

La Cacciatrice è tornata, ha sobillato profondo entusiasmo, e quindi dobbiamo farci domande sui noi stessi

On Air

Dal primo settembre tutte le sette stagioni di Buffy The Vampire Slayer sono disponibili su Prime Video, e la cosa ha generato un robusto entusiasmo. Un entusiasmo a varia intensità, che parte da semplici post sui social, passa attraverso articoli pieni d’amore e cuoricini per la Cacciatrice, e arriva a gente che prende metaforicamente per il colletto chi non ha mai visto Buffy e gli sibila in faccia, con occhi spiritati, “se non la recuperi sei la feccia dell’umanità”.

Per spiegare questo entusiasmo – che fondamentalmente condivido anche se io, per mio gusto personale, non sono un patito dei rewatch – si può naturalmente parlare dei meriti e della qualità di Buffy, ma credo ci sia anche qualcosa di più.
Vediamoli, comunque, questi meriti. Perché a distanza di 23 anni dalla prima messa in onda americana su The WB (rete all’epoca appena nata che cercava di sfondare in un mondo televisivo meno arzigogolato di quello odierno, ma sempre molto competitivo), intorno a Buffy resistono ancora un po’ di pregiudizi, che chi non ha mai visto la serie coltiva sulla base dei suoi elementi più superficiali ma anche, inevitabilmente, più evidenti a una prima occhiata: un titolo che suona quasi parodistico, un po’ di adolescenti che col passare degli anni appaiono pure più buffi di allora, l’idea di una storia in cui i suddetti adolescenti ammazzano vampiri in lungo e in largo. Insomma, è relativamente facile, per chi non ha vissuto quel periodo e non ha mai incrociato la serie, relegarla nell’angolino dei guilty pleasure con cui un po’ di gente si trastullava e si trastulla tuttora.

Ecco, sbagliato. E non sbagliato “perché lo dico io”. Sbagliato perché Buffy – che, sia chiaro, può comunque non piacere e ci mancherebbe altro – ha avuto un impatto sul mondo seriale che non si può negare, perché è lì, si vede, e si vedeva anche all’epoca.
Creata da Joss Whedon, oggi fra i numi tutelari del Marvel Cinematic Universe in quanto regista del primo, fortunatissimo The Avengers, Buffy nasceva da un film scritto dallo stesso Whedon nel 1992, che si basava sullo stesso concept ma aveva tono e stile molto diverso da quelli che poi avrebbe avuto la serie, che è da considerarsi la prima vera creatura interamente whedoniana nella carriera dell’autore.
E non si può negare che Buffy fosse effettivamente una serie in cui una ragazza scopriva di essere la leggendaria “Cacciatrice”, cioè una fanciulla dotata di grandi poteri votati alla lotta contro le forze del Male (vampiri soprattutto), e quindi aveva tutte la carte in regola per essere definita, con una punta di sufficienza, “teen drama con i vampiri”. Ma ad elevare Buffy dal potenziale rango di “robetta del pomeriggio” a “serie fondamentale di fine anni Novanta”, concorsero almeno due aspetti, uno tematico e uno stilistico-produttivo.

Sul fronte tematico, Buffy rappresentò una ventata di freschezza e originalità del tutto inaspettata, a partire sostanzialmente dalla prima scena della prima puntata: normalmente, nei film che trattavano di vampiri, la bionda caruccia e gracile (una bionda alla Sarah Michelle Gellar) era destinata a morire molto presto, o magari a sopravvivere per un po’ correndo a destra e a manca, urlando istericamente, fino a essere salvata e deflorata dall’eroe di turno. Ecco, in Buffy l’eroina è proprio lei, la biondina fragilina che invece fragilina non è per niente, e che si arma di paletti di legno con cui comincia a fare strage di mostri.
Pensate solo agli anni che stiamo vivendo, a quanto si è fatta pressante l’esigenza di una rappresentazione dell’eroismo e del protagonismo cinematografico e seriale che vada oltre l’immagine classica dell’americano bianco, nerboruto e un po’ spaccone. Un’esigenza che sta modificando il modo in cui le serie tv e i film vengono concepiti, e che si palesa soprattutto nel rilievo culturale di prodotti che da un punto di vista meramente tecnico-artistico sarebbero pure modesti (Wonder Woman, Captain Marvel, in parte lo stesso Black Panther del compianto Chadwick Boseman), ma che spaccano il botteghino e i cuori dei fan proprio perché intercettano i bisogni di rappresentazione di una larga fetta di pubblico che finora si sentiva sottorappresentata.
Ecco, Joss Whedon fece questa cosa nel 1997, quindi vent’anni prima, ribaltando completamente i classici ruoli del genere a cui si ispirava, e proponendo un’eroina che sembrava fatta apposta per sdraiarsi su un preciso stereotipo, salvo poi tradirlo completamente.
Ma non c’è solo questa questione. Nelle sue sette stagioni di vita, Buffy ha trasformato le difficoltà dell’adolescenza in una storia di mostri e vampiri, ma senza mai perdere di vita il suo valore di percorso di crescita. Raccontando le avventure della sua protagonista e della gang di amici, mentori e fidanzati che la circondava, Whedon ha toccato con mano salda, ma anche delicata e scanzonata, temi tutt’altro che pacifici, che partivano dall’amore (anche quello sbagliato o tossico, senza contare una bellissima storia d’amore lesbico che nel ‘97 era tutt’altro che la norma in tv), passavano per la gestione del lutto (quella puntata là, Dio mio, che botta), e arrivavano nelle ultime stagioni alla depressione e ai lati più oscuri dell’animo. Insomma, una serie che aveva la forma del prodotto di semplice intrattenimento, ma che affrontava e sviscerava questioni che, anni dopo, non avrebbero sfigurato in alcun prestige drama.

Ma bisogna spendere qualche parola anche su quanto quella forma fosse effettivamente “semplice”, perché guarda un po’, non lo era. Anche da un punto di vista meramente stilistico, Buffy si presentò come qualcosa di nuovo e fresco, ben più originale di come potrebbe apparirci oggi. Su tutto regna questo stile gigione e divertente, anche molto meta, con un sacco di dialoghi frizzanti pieni di riferimenti alla cultura pop, secondo una pratica che poi sarebbe diventata la norma in qualunque serie che volesse definirsi “giovane”. Ma poi c’era la vera e propria voglia di sperimentare, di non limitarsi, ancora una volta, al compitino: da qui emergono evoluzioni vertiginose della trama e dei personaggi (dove le parabole di Spike e Cordelia, nati cattivi e diventati poi due dei più amati “buoni” della serie, sono forse l’esempio migliore), i famosi, divertentissimi dialoghi che sarebbero diventati una firma inconfondibile, episodi al contrario quasi muti, e una puntata musical fra le prime e più belle che la serialità tutta ricordi.
Insomma, un territorio di sperimentazione che cozza fragorosamente con l’immagine, dura a morire, di una semplice “serie tv con adolescenti e vampiri”.

Ma nell’entusiasmo, come detto, c’è di più, o almeno così credo io. Alla fine mi sono dilungato più del previsto a parlare dei pregi di Buffy, ma spero mi perdonerete, al cuore non si comanda.
Ed è proprio una questione di cuore quella che mi sembra ugualmente centrale nell’elettricità che in queste ore attraversa i social.
Non credo sia un caso che il ritorno di Buffy generi questo calore, dal momento che la serie non si vede in tv da dieci anni abbondanti (per lo meno su canali generalisti di grande richiamo, perché in realtà è passata un po’ in sordina di Spike, canale appartenente al network di Paramount che non aveva la forza mediatica per imporre il ritorno come un grande evento), e che questi dieci anni sono stati spesi a montare un grande feticcio, cioè quello della nostalgia.
Che si tratti del recupero effettivo di vecchia serialità quasi dimenticata, o della produzione di nuova serialità che strizza l’occhio a un tempo che non c’è più (tipicamente gli anni Ottanta, alla Stranger Things), la resurrezione di Buffy (stavo per dire riesumazione, ma pare brutto) non è altro che l’ennesimo tassello di un gioco nostalgico che, col passare dei mesi e degli anni, non sembra destinato a sparire tanto presto.
E il motivo è presto detto. La nostalgia è un sentimento comune a tutte le generazioni, quel “qui una volta era tutto campagna” che probabilmente era pronunciato anche dagli antichi egizi, ma questo preciso momento storico sembra più adatto di altri alla sua coltivazione. E parlo proprio dell’adesso, settembre 2020, in cui il mondo non ci sembra un posto necessariamente eccezionale in cui vivere: siamo in attesa di vedere cosa ne sarà della nostra salute e della nostra economica, flagellate da una pandemia globale; abbiamo per le mani le potenzialità infinite della rete e dei social, e vediamo quotidianamente come gli esseri umani le usino per odiarsi fra di loro come mai prima; se guardiamo alla classe politica per cercare guida e conforto, troviamo il nulla più assoluto; gli Stati Uniti sembrano da mesi una delle più cupe puntate di Black Mirror. E via dicendo.
E pure se guardiamo alle cose belle, tipo la quantità, la qualità e la disponibilità di serie tv, ci sembra anche in questo caso di essere contemporaneamente soverchiati dalle novità, e preoccupati dal fatto che la pandemia ci sta lasciando un autunno probabilmente molto povero.
Insomma, in queste condizioni cosa c’è di meglio di ripensare al tempo di un’adolescenza, o di un’infanzia (a seconda di quanti anni avete), in cui problemi veri non c’erano, o non li percepivamo, e l’unico pensiero era la verifica di matematica del giorno dopo, per la quale comunque si poteva aspettare un pochino a studiare, giusto per vedere un nuovo episodio di Buffy? Un episodio che arrivava su Italia 1, primi anni Duemila, quando ancora eravamo legati a doppio filo a pratiche di visione che molti di noi considerano superate, ma che mantengono tutt’oggi il fascino di un’era quasi mitica, di visione contemporanea, di chiacchiere con gli amici il giorno dopo, di prosciugamento di repliche su repliche, perché a volte non c’era altro ma in fondo ci stava anche bene così.
Ci sono pezzi di questa nostalgia che non sono praticamente mai spariti, come Friends, e che quindi sì, sono echi del passato, ma non hanno mai avuto la possibilità di incarnare la narrazione del “ritorno”, perché di fatto non se ne sono mai andati.
Con Buffy è diverso: è tanto che non molti di noi non ce l’hanno nel radar, eppure negli ultimi tempi se ne era anche riparlato, proprio quando, a volte goffamente, a volte nemmeno troppo in buona fede, vedevamo le nuove eroine del cinema porsi come novità assolute, e noi alzavamo la mano per dire “sì no, ok, figata, ma Buffy?”

Ora io non credo che i prossimi mesi vedranno chissà quale discorso pubblico su Buffy. È tornata, Prime Video l’ha usata per arricchire un’offerta che ormai è sempre più importante anche per quanto riguarda il vintage (recentemente è arrivata anche The West Wing, non fate l’errore di non recuperarla se manca alla vostra personale collezione), ma credo che presto passeremo ad entusiasmarci per altre cose, nella continua deviazione dell’attenzione che è tipica del nostro tempo. Chi starà facendo il rewatch se lo gusterà con calma, con copertina e cioccolata calda al seguito, e soprattutto con la possibilità di gestirsi i suoi tempi, guardando la serie in lingua originale e via dicendo (rivedere Buffy sì, rivederla alle stesse identiche condizioni di vent’anni fa, no).
Ma vedere l’entusiasmo che la ricomparsa di Buffy ha generato, il calore puccioso che ha saputo riaccendere nel cuore di chi l’aveva amata all’epoca, è la certificazione non solo del potere della nostalgia in generale, ma anche del valore specifico di una serie tv che ci ha formato e istruito più di quanto ricordassimo, e che siamo più che pronti a riscoprire.

(oh e poi diciamolo: oggi facciamo tutti un po’ schifo, ma se vent’anni fa, come esseri umani, siamo stati in grado di creare e apprezzare Buffy, vuol dire che almeno all’epoca non eravamo poi così male)



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