26 Agosto 2020

Ramy: il recupero doveroso di una grande serie tv di Diego Castelli

Ero rimasto indietro, e ora sono in pari. E meno male.

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QUALCHE SPOILER SULLE DUE STAGIONI C’È

Ramy è una delle tante serie (vabbè, non proprio così tante, dai) che inizio anche con buon entusiasmo e che poi pianto lì perché nel frattempo sono stato distratto. Per quanto mi riguarda è un problema tipico del binge watching che, non dandomi l’appuntamento settimanale, mi costringe a ricordarmi la roba che ho indietro, e puntualmente me ne dimentico.
Comunque, dopo averne parlato l’anno scorso a fronte di 2-3 episodi visti (non ricordo più), è giunta l’ora di ritornare su Ramy, una serie che al momento consta di due stagioni (la terza è già stata abbondantemente annunciata) e che è un gioiellino vero, come i primi episodi facevano presagire, ma che è riuscita ad andare anche oltre le aspettative.
Sul “cos’è Ramy” la faccio breve, anche perché se volete c’è l’altro articolo che rimane ancora valido. Ricordiamo rapidamente che si tratta della storia di un ragazzo americano di origine egiziana, che per sua stessa natura ci presenta il tema dell’integrazione in una delle sue forme più spinose e delicate, cioè la vita dei figli degli immigrati, che si trovano a essere contemporaneamente cittadini del paese in cui sono nati, ma anche in qualche modo stranieri, estranei, costretti a trovare un equilibrio quasi sempre precario fra mondi e culture molto diverse fra loro.

Nelle prime due stagioni, il tema centrale di Ramy resta sempre quello: il tentativo del protagonista (ma in parte, come vedremo, anche degli altri membri della sua famiglia) di trovare un posto che sia davvero suo, di dare un senso alla sua esistenza, al momento priva di veri punti di riferimento.
Per raccontare questa storia, il protagonista (e creatore della serie) Ramy Youssef costruisce due stagioni abbastanza diverse in termini di struttura.
La prima è molto verticale, con puntate quasi sempre autoconclusive, in cui Ramy affronta un particolare pezzo della sua strana e multiforme identità. I rapporti con le donne, con la droga, con i riti dell’Islam, con le sue origini: tutti temi sviscerati con l’inserimento di Ramy in contesti a volte bizzarri, a volte imbarazzanti, che ci mostrano il tentativo spesso apertamente disperato di essere una brava persona, un bravo musulmano, un bravo figlio, salvo poi commettere errori pacchiani che smontano tutti i progressi fatti fino a quel momento. Il tono è quasi sempre leggero, a volte si ride di gusto, anche se Ramy non è certamente il tipo di comedy che affastella chili di battute fulminanti al solo scopo di far sganasciare. La “commedia”, in Ramy, è più di frequente una patina di vago imbarazzo e idiozia, che serve a stemperare l’importanza di certi temi spinosissimi, che altrimenti sarebbero ottimi anche per il più cupo dei drama.
Magistrale, in questo senso, il quarto episodio della prima stagione, in cui la famiglia di Ramy si trova a essere guardata con sospetto dopo l’11 settembre, ma nella percezione del protagonista allora bambino non c’è la dimensione politica e globale del problema, quanto i semplici screzi con i compagni di classe che lo sfidano a masturbarsi per dimostrare di non essere un terrorista, proprio nei giorni in cui lui stava ancora cercando di capirci qualcosa dell’autoerotismo.
Ma anche il quarto episodio della seconda, dove la ricerca di un danaroso finanziatore per il centro islamico porta Ramy a casa di un pazzo scatenato che beve il latte di Mia Khalifa, la famosa ex pornostar che viene a portare un’istanza femminile importante in un contesto completamente fuori di testa.

Il tentativo, insomma, è quello di affondare la mano dentro problemi veri, mantenendo però vivissimo un preciso senso di umanità: il primo obiettivo di Youssef non sembra tanto quello di spezzare o confermare certi stereotipi sui musulmani in America, quanto quello di mostrare che prima di tutto sono persone, e come tali rispondono a pulsioni, desideri e razionalizzazioni che li portano tutti/e in direzioni diverse. Come succede con gli occidentali, d’altronde, che non sono tutti religiosi allo stesso modo, buoni cittadini allo stesso modo, brave persone allo stesso modo. Il mondo che Ramy ci spalanca davanti è sempre contemporaneamente diverso e uguale al “nostro” (inteso come spettatori occidentali che non hanno sperimentato, nella propria vita, la stessa tensione fra culture e mondi). Diverso per usi e costumi, ma uguale nell’essere abitato da homo sapiens che si portano dietro determinati istinti che prescindono dalla cultura di appartenenza, e che ad essi rispondono nei modi più vari.

Nella prima stagione, è importante sottolinearlo, ci sono episodi non Ramy-centrici, che per esempio si concentrano sulla madre del protagonista (che ha seguito il marito in America rinunciando a qualunque sogno personale di indipendenza), oppure sulla sorella, una ragazza che si sente palesemente più americana che egiziana, a cui non frega granché della religione, ma che si trova comunque sotto il giogo di una famiglia non repressiva nel senso violento del termine, ma certamente poco permissiva e molto rigida, almeno secondo gli standard occidentali del Ventunesimo Secolo.
È insomma un continuo sgomitare, domandare, riflettere, con cui praticamente tutti i personaggi principali cercano di trovare una strada che tenga insieme tutto, pur sapendo che quel “tutto” è davvero troppa roba.
Emblematico, per contrasto, il personaggio di Steve, uno dei migliori amici di Ramy, affetto da una disabilità particolarmente invalidante, che spesso sembra il personaggio più centrato di tutti: la sua condizione limita così tanto le sue possibilità e la sua aspettativa di vita, da togliergli di dosso qualunque peso. Steve sa sempre cosa vuole fare in ogni dato momento, perché vive ogni istante come se fosse l’ultimo. Al contrario, le apparentemente infinite possibilità offerte a Ramy lo bloccano, impedendogli di trovare una strada sola da seguire.

Il finale della prima stagione prepara il terreno per la seconda, perché Ramy, dopo aver provato a cercare una strada per conto suo, capisce che da solo non può farcela, e per questo va in Egitto a trovare il nonno, che lui spera essere una fonte di saggezza abbastanza vasta da dargli qualche prezioso consiglio. Il nonno effettivamente accetta, ma muore pochi minuti prima di poter iniziare la sua “lezione” di vita. Un esito tragicomico che ovviamente lascia Ramy spiazzato e nuovamente senza guida, cosa che lo porta al suo ennesimo errore, cioè il sesso con la cugina.
Da qui si arriva alla seconda stagione, che è invece molto più orizzontale (anche se qualche importante episodio chiuso e lontano da Ramy c’è), perché parte da un’idea molto precisa che va approfondita per bene: Ramy trova effettivamente una nuova guida in uno sceicco, Malik, interpretato dal doppio premio oscar Mahershala Ali. In Malik Ramy è convinto di aver trovato quello che cercava: un saggio musulmano dalla mente equilibrata, perfettamente centrato nel suo mondo, perfetta fusione fra Occidente e mondo arabo. Insomma, un maestro di vita a cui Ramy si attacca a cozza con la speranza di poterne ricavare semplicemente un po’ di pace, non appena lo sceicco gli avrà insegnato come mettere in ordine il casino che ha nel cervello.

Inutile dire, senza esagerare con gli spoiler che già non volevo farne così tanti, che l’operazione fallisce, perché il casino mentale, per Ramy, non è un problema passeggero, ma una condizione perenne. Anzi, nel tentativo di farsi “aggiustare”, finisce col guastare anche la serenità del povero sceicco, che sarà costretto a vedere nel ragazzo, che pure inizialmente aveva accolto, un caso disperato che va ben oltre le sue pur vaste competenze.
A questo proposito, e per concludere, credo sia importante evidenziare un percorso di consapevolezza che riguarda quasi più noi che Ramy.
La serie, nel suo complesso, si impegna quasi sempre per non essere troppo giudicante, troppo netta. Ci mostra per esempio alcune storture dell’Islam, anche di quello moderato (come il rapporto quasi sempre sbilanciato fra uomo e donna, come se poi da noi fosse bilanciatissimo, ma ci siamo capiti) ma ci consente anche di vederne i lati più umani e quotidiani, molto più vicini a noi di quanto certa retorica anti-islamica vorrebbe farci credere. E anche quando tratta i singoli protagonisti prova a metterne in luce più aspetti, pregi e difetti, anche di quelli che inizialmente sembravano più macchiettistici, come lo zio Naseem. Tutto questo, naturalmente, in coerenza con quanto si diceva prima, con la volontà di costruire un affresco che sia prima di tutto umano, e quindi per sua stessa natura multiforme e sfumato (anche in un mondo, quello musulmano, che spesso siamo portati a credere essere poco incline alle sfumature).

Eppure, alla fine un giudizio arriva. Perché quando Ramy arriva a deludere le aspettative dello sceicco e di sua figlia, non accade “per caso”, “per sfortuna”, accade perché Ramy si comporta da stronzo. E questo cambia parecchio le carte in tavola: per molti episodi Ramy ci è stato presentato come una vittima delle circostanze, uno che fa fatica a trovare un proprio posto nel mondo perché effettivamente nessuno gliel’ha fornito, come invece capita a molti altri fortunati. Poi ok, magari una vittima fastidiosamente apatica, a volte, ma pur sempre uno su cui porre uno sguardo indulgente, perché questo sentirsi “fuori posto” non è nemmeno prerogativa esclusiva dei figli di immigrati musulmani, ma vale un po’ per qualunque outsider in qualunque contesto. Alla fine, però, Ramy finisce dalla parte del torto quando, se proprio non ha ancora chiaro chi vuole essere e chi vuole diventare, ha però abbastanza chiaro cosa non vorrebbe essere, e ha incontrato persone che sa essere meritevoli di rispetto, e che tradisce senza neanche pensarci troppo su.

Il problema di Ramy diventa allora non più, o non solo, un problema di circostanze, ma anche di puro egoismo. Lo sceicco glielo dice chiaramente a fine stagione, lo mette di fronte alle sue responsabilità, e noi con lui: per due stagioni abbiamo seguito un “eroe” che viveva sì una difficoltà non dipendente da lui, ma che alla fine ci ha sguazzato, e che ha usato quella difficoltà come una scusa per interessarsi solo del suo percorso e dei suoi interessi, dimenticando che invece ognuno di noi – come esemplificato dagli episodi autoconclusivi che, per esempio, mostravano come la sorella di Ramy vivesse almeno in parte i suoi problemi, con l’aggiunta di essere femmina e secondogenita, e per questo inferiore agli occhi dei genitori – è protagonista di un suo personale percorso, che vale tanto quanto quello degli altri.
Invece di trovare un equilibrio fra diverse istanze rigorosamente personali (religiose, lavorative, emotive ecc), la seconda stagione di Ramy pone il suo protagonista davanti alla consapevolezza che forse la prima cosa da fare è rendersi conto che non si è soli al mondo, e che quindi qualunque percorso non può prescindere dal riconoscimento dell’Altro.
Un po’ come se le consapevolezze di Ramy Youssef, creatore della serie che cerca di avvicinarci a un mondo che non conosciamo, fossero frutto di un percorso interiore già concluso, ma che il suo protagonista e alter ego deve ancora finire di compiere, prima di trovare una pace dei sensi che a questo punto deve impegnarsi non solo a ottenere, ma anche a meritare.

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