Barkskins: l’America delle origini su National Geographic di Diego Castelli
Francesi, inglesi e pellerossa che si ammazzano fra loro
National Geographic, si sa, è una rete che da tanti anni si occupa di farci vedere come copulano i leoni, cosa succede nello spazio oltre la nostra atmosfera, e altre simili amenità naturalistiche.
Da 3-4 anni a questa parte, però, ha cominciato a sondare anche la strada della fiction, producendo cose di una certa qualità e successo, come ad esempio Mars (un misto di finzione e documentario con interviste ecc) e The Hot Zone, dedicata alla scoperta del virus Ebola.
Ora è arrivata Barkskins, creata da Elwood Reid a partire dal romanzo di Annie Proulx, e ancora una volta National Geographic dimostra di essere l’”ultima arrivata” solo da un punto di vista cronologico.
Barkskins è ambientata nell’America di fine ‘600, quando le terre attualmente appartenenti agli Stati Uniti erano ancora una sterminata e rigogliosa foresta su cui avevano messo gli occhi sia i francesi, spediti lì da re Luigi XIV (che aveva ribattezzato la regione “Nuova Francia”), sia gli inglesi, che finiranno con l’avere la meglio nei decenni successivi.
E naturalmente, trattandosi di National Geographic, il fatto che Barkskins sia fiction pura senza inserti documentaristici come avveniva con Mars, non cambia il fatto che ci sia una precisa volontà pedagogica nel raccontare un intero periodo storico e un’intera evoluzione sociale, economica e industriale. Malgrado i primi quattro episodi (e immagino tutta la prima stagione) siano ambientati negli stessi anni, infatti, l’intento dichiarato di Barkskins è quello di partire dalla fine del Seicento per arrivare ai giorni nostri, concentrandosi sul processo di deforestazione e urbanizzazione che cambiò il volto dei moderni Stati Uniti, trasformandoli da terra vergine e incontaminata alla prima potenza mondiale che è oggi (o forse seconda potenza, boh vabbè, non è questo il tema).
In questi primi episodi ci si concentra soprattutto sulle figure di René Sel (Christian Cooke) e Charles Duquet (James Bloor), due immigrati francesi di fatto cacciati dalla madrepatria, che arrivano nella nuova terra in cerca di fortuna, trovando una società ancora giovane ma già sufficientemente articolata, che continua a ricevere ordini e direttive dall’Europa, ma comincia anche a muovere i primi passi autonomi. In realtà, comunque, la vicenda dei due (di cui in futuro seguiremo i discendenti) è soprattutto il pretesto iniziale, perché nel giro di poco Barkskins si organizza attorno a un cast molto corale di personaggi, fra cui Hamish Goames (Aneurin Barnard), un inglese inviato a cercare un compaesano scomparso da qualche settimana e che si accompagna a un pellerossa cazzutissimo (Zahn McClarnon), e soprattutto Claude Trepagny, bizzarro nobile francese interpretato da David Thewlis (il V.M. Varga di Fargo, senza contare la sua ricchissima carriera cinematografica).
Barkskins ha due pregi evidenti, più qualche difetto altrettanto evidente.
Il primo pregio è una ricostruzione storica e scenografica di grande livello. Il che significa grande attenzione per gli usi e i costumi del tempo (con particolare attenzione a qualche pratica che oggi ci sembra super-barbara, tipo le donne inviate dall’Europa allo scopo di prendere marito nelle americhe e popolare così Nuova Francia); un grosso dispiego di mezzi nella ricostruzione delle ambientazioni, delle architetture, dei costumi; e anche alcuni specifichi tocchi di classe, come una fotografia curatissima che evita di smarmellare la luce a caso e non ha mai paura di mostrarci quando potesse essere buia l’oscurità di un luogo privo di luce elettrica.
Il secondo pregio è più legato all’atmosfera complessiva. Usando un complicato intrico di omicidi, tradimenti, minacce, e lettere ceralaccate provenienti dall’Europa e sventolate come formule magiche con cui comandare i propri simili, Barkskins riesce a trasmettere in maniera piuttosto precisa il senso di lontananza – fisica e metaforica – di questi primi coloni dalla madrepatria.
L’America come la intendiamo oggi qui ancora non esiste, e i pochi francesi e inglesi arrivati sulle sue coste sono schiacciati fra un oceano che tiene lontanissima la propria vecchia casa, e una foresta brulicante di pellerossa che “casa” non lo è ancora. C’è un fortissimo senso di precarietà che impregna tutto il racconto, come se la civiltà che i coloni vogliono fondare, o trasferire, potesse essere spazzata via in un attimo dall’avidità che hanno portato con loro insieme allo spirito d’avventura.
Non esiste polizia, fra i coloni, né un’autorità che si possa davvero definire tale, nessuno che possa difendere i deboli, che quindi devono smettere in fretta di essere deboli, per non soccombere. E questo è forse il risultato migliore per una serie dal preciso valore storico, che ci racconta di un periodo poco battuto dal cinema e dalla tv, e che porta con sé tutto un fascino pionieristico che, fra le altre cose, ci fa apprezzare tantissimo il fatto che noi abbiamo il wi-fi.
Come detto, però, c’è anche qualche difetto. Il pilot ha molta fretta di accumulare fatti e nomi, e così di colpo può risultare faticoso da seguire, complice anche la fotografia scurissima che fa consigliare di guardarlo rigorosamente di sera.
Allo stesso tempo, è fin troppo corale, nel senso che Barkskins, tutta presa a raccontare molti punti di vista e molte diverse esperienze di vita coloniale, si dimentica che un/una protagonista, anche solo teorico, sarebbe sempre meglio fornirlo, perché altrimenti ci si trova davanti un grande affresco, ricco di dettagli, ma in cui diventa faticoso trovare un punto di vista privilegiato attraverso cui guardarlo.
È soprattutto un problema all’ingresso della serie, che già dopo un paio di episodi riesce a piazzare qualche bel colpo (nemmeno troppo metaforico) e fa salire con più facilità il desiderio di vedere l’episodio successivo.
C’è però un altro dettaglio che mi ha un po’ disturbato: parlano tutti inglese. Siamo in una colonia a maggioranza francese, e la serie dedica largo spazio alle dispute fra inglesi e francesi, e poi si trovano tutti a parlare allo stesso modo, salvo qualche accento un po’ più marcato qui e là, e qualche generico “monsieur” sparato a caso giusto per ricordarci chi viene da dove. Una soluzione che naturalmente è stata dettata dalla necessità di non appesantire troppo la serie per il pubblico americano, ma che per esempio fa pensare con una certa nostalgia alle soluzioni escogitate da Vikings, che era riuscita a trovare il modo di farci avvertire il passaggio da una lingua all’altra permettendoci di sentire le differenze in fase di scontro.
E proprio Vikings, una serie prodotta da un canale in qualche modo simile a National Geographic (cioè History Channel), potrebbe rappresentare il più facile termine di paragone, da cui Barkskins al momento non esce benissimo. I mezzi ci sono, le potenzialità anche, ma Vikings negli anni ha trovato un compromesso più efficace fra la mission pedagogica e le necessità della fiction, trovando per esempio in Ragnar un primo, carismatico protagonista, che non ha comunque impedito lo sviluppo di altri personaggi di grande interesse.
Ma Barkskins è pure all’inizio della sua storia, e vale la pena darle un po’ di fiducia, se riuscite a passare il primo paio di episodi un po’ pesantucci.
Perché seguire Barkskins: perché è una serie ben pensata e ben messa in scena, a cui riescono 2-3 cose importanti.
Perché mollare Barkskins: perché all’inizio è un po’ ostica, e perché fa pensare a Vikings senza essere al livello di Vikings.