Homecoming seconda stagione: poca roba di Diego Castelli
A quasi due anni dalla prima stagione con Julia Roberts, la seconda introduce Janelle Monáe ma perde buona parte del suo mordente
Ancora prima del debutto di Homecoming, nel novembre 2018, c’erano due grossi fattori che ci spingevano ad aspettare la prima stagione con trepidazione: il primo era Julia Roberts, al suo primo ruolo da protagonista seriale; e il secondo era Sam Esmail, già creatore di Mr Robot e designato regista di tutti gli episodi (scritti dai poco più che esordienti Micah Bloomberg e Eli Horowitz). Il fatto poi che fosse prodotta da Prime Video, che già all’epoca cominciava a distinguersi per molti prodotti di qualità, era la ciliegina sulla torta.
Ed effettivamente Homecoming si rivelò una bella serie, un thriller psicologico ben scritto e dal formato intrigante (un drama con durata da comedy), che si fece apprezzare con facilità, complicato ma non incomprensibile, pacato ma non noioso.
Quasi due anni dopo è arrivata la seconda stagione, che era stata annunciata fin da subito, e non ci sono più né Julia Roberts né Sam Esmail, entrambi rimasti come produttori esecutivi ma non più coinvolti direttamente sul set. Il che, onestamente, non faceva ben sperare…
La Roberts in realtà è stata sostituita da un nome comunque grosso, anche se non così grosso, come quello di Janelle Monáe, cantautrice di successo che da qualche anno si è data anche alla recitazione, con risultati di tuttissimo rispetto (il suo debutto cinematografico vero e proprio fu con Moolight, vincitore di tre oscar). Esmail invece è stato sostituito da Kyle Patrick Alvarez che, non ce ne vorrà, ma ha un curriculum inferiore: nel 2015 ha diretto un film carino ma molto piccolo come Effetto Lucifero, e poi qualche episodio seriale qui e là in 13 Reasons Why e Counterpart. Buone prove, ma non abbastanza da solleticare davvero il nostro entusiasmo.
E mi dispiace dirlo, ma la differenza si vede, anche se in realtà il problema della seconda stagione di Homecoming parte anche da più lontano, dalla scrittura.
C’è una premessa importante da fare, in verità: i sette episodi della seconda stagione me li sono guardati volentieri nel corso di un singolo pomeriggio.
Si tratta effettivamente di un seguito della prima stagione, di cui ritornano i personaggi di Walter Cruz (Stephan James), il reduce che faceva le sedute proprio con Julia Roberts, e Audrey Temple (Hong Chau), assistente alla Geist che in questa seconda stagione guadagna tutt’altro ruolo.
Ed è proprio una persona collegata a Audrey, Alex (interpretata dalla Monáe), a fare il suo debutto come protagonista di questo nuovo ciclo di episodi: nella premiere la vediamo spaesata e smemorata su una barca, senza più ricordi circa la sua identità e la sua vita, e seguiamo il suo percorso alla ricerca della verità, percorso che finisce con l’intersecarsi con la Geist, il programma Homecoming e alcuni nuovi personaggi di rilievo, interpretati da Chris Cooper e dall’adorabile Joan Cusack, che in teoria dovrebbe ricoprire la parte esclusivamente drammatica di un’ufficiale della Difesa, ma che non riesce a non far sorridere almeno un po’, perché è troppo buffa e tenera.
Basta relativamente poco, giusto un paio di episodi, per inquadrare il paradigma narrativo. La seconda stagione di Homecoming, in cui perfino la colonna sonora richiama a certo cinema mystery degli anni Cinquanta, è un giallo-thriller un po’ d’altri tempi in cui l’amnesia chimicamente indotta nella protagonista viene usata come scusa per costruire un puzzle in cui i vari pezzi vanno a posto progressivamente, facendo correre parallelamente la storia post-amnesia e quella pre-, fino al punto in cui le due narrazioni si incontrano, tutto viene svelato, e si può arrivare a un finale che in qualche modo metta in ordine tutto il caos accumulato nelle puntate precedenti. Un finale che, senza fare spoiler, è forse la cosa migliore della stagione, perché molto forte e risolutivo, e sufficientemente sorprendente.
E questi sono i motivi per cui, effettivamente, sti sette episodi me lo sono guardati volentieri.
Il problema è che non c’è altro. Oltre al semplice gioco degli incastri, pur funzionante, non ci sono grossi guizzi né dal punto di vista visivo, né da quello dialogico, per non parlare della semplice, banale mancanza di vere emozioni.
La prima stagione ci portava a chiederci quali fossero i segreti dietro un programma di recupero per veterani che nascondeva parecchie ombre, ma ci dava anche il gusto del “qui e ora” di una regia impeccabile, una recitazione precisa, dialoghi che scavavano nella psicologia dei personaggi, aumentando al contempo la sensazione di mistero e di tensione. A conti fatti si parlava di un farmaco pensato per eliminare i ricordi negativi dei reduci, che ovviamente finiva con l’essere usato male, ma nonostante la semplicità di questa idea si riusciva a percepire la pesantezza della situazione, lo spaesamento di Marcus, l’inquietante scricchiolio di intere vite distrutte.
Questa emozione nella seconda stagione non c’è. Sì, la protagonista ha perso la memoria, e sì, se vogliamo essere buoni c’è il tentativo di creare un sottotesto filosofico legato all’importanza dei ricordi non solo come struttura portante della personalità, ma anche come primaria fonte di senso della realtà che ci circonda: il messaggio che passa (dovrebbe passare) è che senza i nostri ricordi, che strato dopo strato hanno dato valore a ciò che riteniamo importante nella vita, tutto perde di senso e di rilevanza, lasciandoci lì come mere creature respiranti.
Si tratta però di un gioco puramente intellettuale che va in qualche modo ricostruito in fase di critica, ma che non trasuda vistosamente e inequivocabilmente dalle scene che vediamo. Il risultato è una seconda stagione pure precisa nella costruzione, e con un finale ben progettato, ma che ti lascia così, con una scrollata di spalle. Il che non sarebbe un problema gigantesco se Homecoming fosse da sempre una serie giallina e leggerina. Purtroppo, però, nella prima stagione aveva propositi di grandezza che sono stati qui completamente disattesi.
Peccato.