Will & Grace – Questa volta è davvero finita di Paolo Armelli
Il finalone finalone di Will & Grace, ma soprattutto un tuffo in tutto quello che ha significato negli anni questa comedy. E non sprecate spazio con quelle inutili olive, per favore
Dire addio non è mai semplice, se avete qualche decennio alle spalle ne sarete consapevoli. Ancora più complesso, e se volete beffardo, dire addio per ben due volte. In sostanza è quello che è successo ai tantissimi fan di Will & Grace sparsi in tutto il mondo. Gli appassionati della sitcom Nbc (trasmessa da noi su Tele+ e Italia1, poi su Fox Life e più di recente su vari canali digitali) l’avevano già salutata nel maggio 2006, con un doppio episodio finale che a dir la verità aveva lasciato dell’amaro in bocca. Passano dieci anni e nel 2016 il cast si riunisce per uno speciale elettorale a sostegno di Hillary Clinton (sapete poi com’è andata), scatenando un entusiasmo tale da spingere il network a ordinare un revival, dato che siamo in epoca di nostalgia e compiacimento boomer. Ne derivano tre stagioni ulteriori, prima di staccare di nuovo la spina: il 23 aprile 2020 è calato il sipario (stavolta per sempre, ci tengono tutti ad assicurare), e anche qui non senza disappunto tra i fan, ancora una volta lasciati a cullare la propria sindrome dell’abbandono.
Gli appassionati di serie lo ammettono senza vergogna: ad alcuni personaggi si vuole bene come se fossero persone di famiglia, congiunti degni di DPCM. Soprattutto se ci accompagnano per svariati anni, magari proprio quelli della formazione, diventando parte integrante del nostro bagaglio di sensibilità e affetti. Per una grande fetta di pubblico, Will & Grace è stato questo e molto altro. La comedy che vedeva protagonisti l’avvocato gay Will Truman (Eric McCormack) e la sua migliore amica, un’arredatrice d’interni ebrea di nome Grace Adler (Debra Messing), accompagnati dall’amico super camp Jack McFarland (Sean Hayes) e dalla ricca e alcolizzata assistente Karen Walker (Megan Mullally), non è stata solo un enorme successo televisivo in ogni angolo del pianeta, è diventata anche un simbolo. Le battute taglienti e le scene slapstick, infatti, si saldavano senza soluzione di continuità con un cuore profondo e contemporaneo, incarnato da un gruppo di amici sui generis, in cui l’omosessualità diventava il new normal e l’essere outsider solo una delle tante stramberie caratteriali.
Sospendendo per un attimo il discorso “politico”, Will & Grace è stata innanzitutto una serie perfetta dal punto di vista tecnico: soprattutto nelle prime stagioni (almeno fino alla quarta, con qualche guizzo fino alla sesta) la scrittura di dialoghi e situazioni era infallibile, a dir poco virtuosa; la chimica costruita man mano fra i personaggi li rendeva una specie di unico organismo comico a quattro teste, in cui i tempi erano sempre giusti, le dinamiche sempre fluide; il centinaio di guest star che si sono alternate negli vari episodi (da Gene Wilder a Madonna, da Glenn Close a Matt Damon, da Jennifer Lopez ad Alec Baldwin…) ne hanno attestato non solo il successo di pubblico ma anche una qualità stilistica difficilmente riscontrabile altrove. In pochi negli ultimi decenni, dopo Seinfeld e Friends (e prima di Big Bang Theory e Modern Family), hanno fatto ridere in modo così chirurgico, senza (quasi) mai rinunciare a una coerenza e originalità di fondo. Tutto ciò fece guadagnare la cifra monstre di 83 nomination agli Emmy, con 18 vittorie (ognuno dei 4 protagonisti vinse come migliore attore comico, Mullally fece addirittura la doppietta).
Difficile riassumere in poche righe questo universo comico, anche se sono tante le immagini che si affastellano nella mente del fan della prima ora: le spropositate tette finte di Grace che zampillano acqua nel bel mezzo di una mostra di quadri; le innumerevoli entrate ad effetto di Jack (“Just Jack!”) o il suo viaggio in paradiso con tanto di angeli nudi e Cher nei panni di Dio; l’episodio anni ’80 con il goffissimo coming out di Will; la madre di Grace, interpretata dalla compianta Debbie Reynolds, che canta “Te l’avevo detto”; gli episodi live dell’ottava stagione con le sopracciglia disegnate e le risate del cast trattenute a stento. Un capitolo a parte meriterebbe la perfezione sul personaggio incarnato da Megan Mullally: Karen Walker, l’ereditiera perennemente fuori dal mondo, sempre persa nei fumi di alcool e pillole, con le sue battute acide e l’umorismo politicamente scorretto che faceva da contrappeso a ogni tendenza zuccherosa della serie. Attorno a lei ruotano alcuni personaggi minori geniali (l’invisibile marito Stan, la cameriera Rosario perfetto emblema di odi et amo – interpretata da Shelley Morrison, scomparsa nel dicembre 2019, senza contare “Beverly Leslie è omosessuale” o lo sciagurato barista Smitty), e sempre a lei si devono alcune delle freddure più memorabili, in qualità di esperta di galateo (“Sesso per soldi? Certo che no! Per gioielli, per pellicce, per titoli in borsa, come una signora”), profetessa del distanziamento sociale (“A meno che tu non sia servita in un bicchiere ghiacciato, mai stare a meno di un metro dalla mia bocca”), dottoranda in anatomia (“Tesoro, se i tuoi genitali sono all’esterno, hai sempre qualcosa da nascondere all’interno”).
Risate a parte, non si può parlare di questa serie comica senza affrontare il tema della sua rilevanza: la creatura di Max Mutchnick e David Kohan (i due sceneggiatori, rispettivamente l’uno gay e l’altro ebreo, amici inseparabili fin dal college “nonostante” le differenze, così come i due protagonisti) debuttò negli Stati Uniti nel settembre 1998 e già con il fatto stesso di andare in onda sfidava i canoni della tv americana: solo il luglio precedente la sitcom Ellen era stata cancellata dalla Abc (di proprietà di Nostra Grande Madre della Correttezza Disney) congelando per una decina d’anni la carriera della sua creatrice e protagonista Ellen DeGeneres, rea di aver fatto pubblicamente coming out come donna lesbica e fatto seguire lo stesso destino al suo personaggio (DeGeneres fece poi un cameo proprio in Will & Grace, nei panni di una suora che “non ha mai conosciuto un uomo”, prima di trovare nuovo successo col suo talk show in syndication). Pochi mesi dopo lo scandalo causato da una sitcom su una donna rivelatasi lesbica, su un’altra rete nazionale andava dunque in onda uno show con un uomo apertamente omosessuale (il primo protagonista gay di un programma di prima serata sulla tv americana), affiancato da un altro personaggio secondario che più gay non si poteva. E la cosa funzionò, funzionò alla grande (si trattava pur sempre di un uomo e non di una donna, annoterebbero alcuni).
Negli Stati Uniti del Don’t Ask Don’t Tell (approvato solo l’anno prima dal caro Bill Clinton), Will & Grace fu un successo clamoroso proprio per la sua normalizzazione (talvolta problematica, diremo poi) dell’omosessualità: si poteva essere gay e di successo, avere degli amici che ti sostengono come (e più di) una vera famiglia, si poteva vivere allo scoperto senza paure e provincialismi. Se questo era rivoluzionario nella patria delle libertà civili, figuriamoci nelle varie periferie dell’Impero: quando Tele+ Bianco mandò in onda i primi episodi doppiati in italiano (peraltro in qualche modo edulcorati), per molti ragazzini omosessuali dell’epoca, ma anche per molte persone che sentivano su di sé lo stigma della diversità (giusto per non esagerare con l’autobiografismo), fu letteralmente una rivelazione. Quelle erano figure “reali”, né oscene né contronatura, andavano in tv, il mondo non poteva costringerli all’ombra. Ovviamente quelli erano entusiasmi più o meno inconsci e solitari, bisognerà aspettare il 2012 prima che Joe Biden, allora vicepresidente di Obama e (si spera) futuro presidente Usa, ci mettesse un marchio pubblico e definitivo: “Penso che Will & Grace abbia fatto più di qualsiasi altro finora per educare il pubblico americano”, disse in un’intervista elettorale.
Non che prima di questa serie non ci fossero stati in tv personaggi omosessuali, molti dei quali relegati però a ruoli sciagurati o macchiettistici. Will & Grace invece ribadiva che non esistevano amori gay e problemi gay e delusioni gay: esistevano amori, problemi, delusioni, condivisi da personaggi di ogni orientamento, anzi, la diversità di questi personaggi veniva del tutto affogata nella loro natura buffa, surreale, ironica. Erano umanissimi freak, prima che gay. C’erano comunque dei punti controversi, a dire il vero, e molti temi delicati trattati nelle prime stagioni con ironia e sberleffi oggi non passerebbero il vaglio della polizia del politically correct: per dirne una, Will è un omosessuale mascolino e in qualche modo eteronormato, il quale è contrapposto al più flamboyant Jack proprio per farne risaltare la “somiglianza” ai canoni comuni. Questo ovviamente cambia nel corso del tempo, e i messaggi di accettazione e diversità si fanno sempre più convinti. Ma in alcuni episodi storici restano radicate battute al limite dell’omofobo nel confronto di lesbiche e transessuali, tuttavia a ben vedere questo conferma la tesi: Will & Grace ha educato alla sensibilità sui temi Lgbt+ proprio perché ha saputo educare nel tempo sé stessa (emblematico in quest’ultima stagione l’episodio sui luoghi comuni legati ai bisessuali).
Con una responsabilità così ingombrante, guadagnatasi con sudore e risate per otto stagioni, Will & Grace è dunque risorta dalle sue ceneri nel 2017 con un fardello pesante sulle spalle: far ridere ed essere rilevante come un tempo, pur in un mondo che in 11 anni ha cambiato completamente volto. Nella prima stagione revival l’obiettivo sembra centrato: si cancella con un colpo di spugna il primo finale (in cui Grace e Will si erano persi di vista salvo ritrovarsi molti anni dopo, riuniti dal college dei figli) e si riprende come niente fosse successo. E in effetti niente era successo (era tornato in pianta stabile persino il regista, James Burrows, che già aveva diretto tutte le puntate della fase 1): Will è il solito rigidone che, soprattutto per trovare l’amore, sfida i suoi limiti nevrotici; Grace, sempre pigra e mangiona, scopre una vena più femminista e politica (pare per precise imposizioni contrattuali dell’attrice Debra Messing); Jack è naturalmente ancora uno spiantato sognatore, esagerato in modi e gesti, ma forse meglio disposto al mettere la testa a posto; Karen Walker, manco a dirlo, è Karen Walker.
Il revival, dicevamo, doveva dimostrare di essere divertente e rilevante nell’era di Trump, ovvero quella più triste e politicamente risibile degli ultimi decenni: soprattutto nella prima stagione ci è riuscita, cercando anche di guardarsi con lucidità allo specchio, ammettendo di mettere in campo protagonisti invecchiati, ma non sdentati. Il graffio rimane, la chimica si avverte vivace, fioccano le stoccate su temi forti (discriminazioni, #MeToo, madri surrogate ecc.). Will & Grace è tornato dunque col suo smalto di sempre, ma l’ha anche subito smarrito. Già la seconda stagione del revival (la decima in totale) arranca cercando di introdurre variazioni di variazioni sul tema, mentre la terza (l’undicesima) si arrende alle più assurde panzane. Basta leggere i commenti dei fan sulle pagine social della serie per cogliere un disappunto diffuso: la gravidanza di Grace nell’ultima stagione è un pretesto ridicolo, l’ultimo episodio (che da noi andrà su Premium Stories a fine maggio) affrettato come i più mediocri temini delle medie, il ricordo di una comicità fulgida, irrisoria e al contempo emozionante ormai davvero opaco. Rimangono attimi isolati di ilarità assoluta, persi però in una narrazione affannata.
Qui le scene in onda e le indiscrezioni dietro le quinte si fondono, intorbidendo le acque: dopo la notizia, uscita nell’estate 2019, che l’undicesima stagione sarebbe stata l’ultima, affiorano pure voci su dissidi molto forti fra Mullally e Messing, con velate accuse di bullismo che volano dalla prima alla seconda. In un’epoca social come la nostra, queste voci vengono amplificate e i fan – influenzati o meno – iniziano a notare che nei vari episodi l’intesa è spenta, le due attrici ma in generale tutti i protagonisti paiono sempre più lontani, separati nelle proprie singole storyline (Karen sarà addirittura assente da due episodi dell’ultimo ciclo). L’amarezza aumenta, lo smarrimento pure, come quando ti chiedono se preferisci la mamma o il papà, la cioccolata o la pizza. Ci si domanda addirittura se fosse valsa la pena di tornare con nuove stagioni, se poi si è finiti ancora una volta in calare, senza rendere in sostanza giustizia a un passato così glorioso.
I fan più sfegatati (di nuovo, autobiografismo: on) sono però grati di aver avuto la possibilità di rivedere questi personaggi sullo schermo, come a confermare l’idea (l’illusione) che le cose belle della vita possono sempre tornare, che vecchi amici che ci hanno fatto ridere e sostenuto in tempi bui, ma poi persi di vista, possano comunque riaffacciarsi, anche se brevemente. Will & Grace è stata una serie tv di grande qualità produttiva, ma è stata anche un innegabile manifesto di come la televisione, nel suo piccolo e nel suo ridicolo, possa contribuire a plasmare l’opinione pubblica, intervenire sulle vite, dare una possibilità di legittimazione e riconoscimento. Rivedere Will & Grace, anche oggi e nonostante tutti i difetti, è come un bere un Martini fatto bene: è secco e gelato come le freddure meglio riuscite, ha tutti gli ingredienti nella giusta misura e ti dà carattere. Soprattutto, ti insegna a “non sprecare spazio con quelle inutili olive”.