Anteprima The Eddy: la nuova serie Netflix dal regista di La La Land di Diego Castelli
Prime impressioni (senza spoiler) sulla nuova serie firmata, tra gli altri, da Damien Chazelle
Damien Chazelle mi piace un botto. Sono un fan totale di La La Land, cosa che mi sorprende parecchio fin dalla prima volta che lo vidi, per il semplicemente motivo che solitamente non vado matto per i film in cui cantano quando la gente normale parlerebbe. Eppure con La La Land fu amore immediato e duraturo.
E mi piace parecchio anche il film successivo di Chazelle, First Man, a mio giudizio molto sottovalutato, sebbene riesca a declinare in maniera malinconica e quasi perfetta la passione del regista per la musica e il sonoro, in un’ambientazione teoricamente meno congeniale come quella della biografia “spaziale”.
Ma se dobbiamo cercare, nell’ancora breve filmografia del regista di Providence, un termine di paragone per The Eddy, la serie di Netflix creata da Jack Thorne per la quale Chazelle ha diretto i primi due episodi, allora bisogna guardare al film immediatamente precedente a La La Land, cioè quella piccola chicca di Whiplash.
In realtà mi smentisco quasi subito, dicendo che The Eddy parla effettivamente di qualcosa che a La La Land era molto caro: il jazz e, indirettamente, Parigi. Elliot Udo (André Holland) è un musicista di grande fama a New York, che a un certo punto, anche a seguito di un trauma familiare, decide di allontanarsi da moglie e figlia e trasferirsi nella capitale francese per aprire insieme a un amico il The Eddy, un locale di musica jazz la cui band principale è gestita dallo stesso Elliot, che compone le canzoni pur essendosi ritirato dall’effettiva pratica musicale in pubblico.
Il locale ha già qualche problema di suo, deve ancora ingranare come si deve, cosa che per il protagonista è già motivo di forte stress. Ma come se non bastasse, Elliot scopre che il suo partner Farid sta probabilmente facendo affari con gente losca, e contemporaneamente riceve la visita della figlia Julie, che arriva da New York con un bel carico di problemi e oscurità.
Quando si parla di serie tv, siamo abituati a pensare soprattutto agli sceneggiatori, più che ai registi, a maggior ragione quando guardiamo un drama che, in assenza di mondi fantastici e futuri fantascientifici, non deve teoricamente inventarsi granché in termini di “visivo”.
Ovviamente, però, il nome di un regista premio oscar come Chazelle non può che attirare l’attenzione, e le prime due puntate da lui dirette portano la sua firma praticamente su ogni inquadratura.
Il pilot inizia con un complicato piano sequenza che ci racconta tutta la vibrante e pericolante vita del locale, e Chazelle sceglie di seguire i suoi personaggi con una camera a mano particolarmente precaria, molto mobile, che contrasta con l’atmosfera idealmente soffusa e rilassata di un locale jazz, per restituirci la pressione a cui il suo proprietario è costantemente sottoposto. E lo stesso stile si riconoscerà poi anche al di fuori del The Eddy, dove la vita di Elliot subirà scosse profonde e improvvise.
Ma dove Chazelle dà il suo meglio, come nel citato Whiplash, è nella rappresentazione della musica e dei musicisti. In The Eddy la musica e il lavoro di chi la produce non sono solo la cornice o lo sfondo in cui ambientare la storia, ma la nervatura di tutto l’impianto. La sceneggiatura indugia spesso sul lavoro certosino per ottenere il massimo dalla band del locale, e Chazelle ci si tuffa dentro avvicinando continuamente la macchina da presa alle mani dei musicisti e al volto della cantante Maja (Joanna Kulig), permettendoci di “sentire” la musica non solo con l’udito, ma anche con tutti gli altri sensi.
Proprio come in Whiplash, dove seguivamo la storia di un giovane batterista e del suo percorso verso la grandezza, così in The Eddy ci sembra quasi di poter toccare con le nostre mani gli strumenti sul palco, che smettono di essere semplici produttori di suoni, e diventano estensioni del corpo dei protagonisti, parte integrante della loro identità, oggetti che hanno un valore vero, affettivo ed emozionale (si guardi anche l’attenzione che Elliot riserva al clarinetto della figlia), e che partecipano attivamente la vita psicologica dei loro padroni.
E di nuovo come in Whiplash, dove c’era uno straordinario lavoro con i due attori protagonisti, Miles Teller e J.K Simmons (che per il suo ruolo dell’insegnante vinse un oscar), Chazelle chiede agli attori e alle attrici di The Eddy uno sforzo molto preciso nella rappresentazione di sentimenti spesso sotterranei, ma capaci di esplodere in improvvise fiammate, proprio come il jazz, e con quello stesso senso di precarietà con cui la regia marchia tutta la messa in scena.
Non abbiamo ancora visto i restanti sei episodi che compongono la prima stagione, e che sono diretti da due registi (Houda Benyamina e Laïla Marrakchi) e un regista (Alan Poul) diversi. Certo è che Chazelle ha dato alla serie un’impronta espressamente europea (a volte perfino troppo, con certe scene casalinghe la cui fotografia suona un tantino cheap, quasi “da fiction”, se mi si passa questo termine un po’ improprio), dandoci davvero l’impressione di essere immersi in una Parigi insieme difficile e perfino pericolosa, ma anche vibrante di possibilità, creatività e calore.
The Eddy è una serie d’autore, un po’ diversa da quelle a cui siamo abituati. Più che “seguita” ha bisogno di essere “esperita”, bisogna cioè sedercisi davanti proprio come ci siederemmo in un locale jazz, immergendoci in un groviglio di suoni e immagini di cui, però, riusciamo a vedere anche il precario dietro le quinte.
Vedremo se i restanti sei episodi della stagione riusciranno a tenere lo stesso livello, o se magari ne costruiranno uno loro, ugualmente affascinante. In caso di bisogno ci risentiamo.
Perché seguire The Eddy: abbiamo visto due episodi di bello stile e intensità, con un’attenzione alla musica e al suo farsi che nelle serie tv vediamo raramente.
Perché mollare The Eddy: la regia di Damien Chazelle è tanto affascinante quanto poco classica, e potrebbe risultare difficile da digerire