22 Aprile 2020

Devs series finale – Capolavoro da amare e basta di Diego Castelli

Alex Garland confeziona il finale (quasi) perfetto di una miniserie da ricordare a lungo

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SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE

Vogliamo parlare per un attimo della meravigliosa soddisfazione che ti danno le serie (o miniserie) che iniziano bene, si sviluppano meglio, e finiscono alla grande?
Ahhh, che benessere…
Soprattutto quando hai speso parole al miele per un pilot, e poi non devi tornare con il capo cosparso di cenere ammettendo “scusate, ho preso un abbaglio”.
Non è questo il caso, fortunatamente, perché Devs, la miniserie di Hulu scritta e diretta da Alex Garland, già regista di Ex Machina, è un gioiello fatto e finito, che ci ha regalato emozioni e viaggi mentali dall’inizio alla fine. Ecco, magari con un piccolissimo inciampo sul finale-finale, ma roba di poco conto.

In realtà, cercando di riflettere a mente fredda sull’intera faccenda, ci si rende conto che Devs è anche significativamente cambiata nel corso delle settimane. All’inizio ne parlavamo come di una serie divisa a metà fra una fantascienza fascinosa e cervellotica, incentrata su una macchina capace di calcolare il rigido determinismo dell’universo tanto da poter teoricamente mostrare qualunque immagina e suono del passato e del futuro, e un thriller spionistico che comprendeva agenti segreti stranieri, omicidi mascherati da suicidi, risvolti politici non meglio precisati e via dicendo. Arrivati al finale, dobbiamo però riconoscere che quella seconda anima è stata quasi più un pretesto, un’esca con cui titillare la curiosità degli spettatori più abituati a storie dritte e precise, perché in effetti Garland aveva in mente altro.
L’ultimo episodio di Devs rinuncia alla sua componente più “gialla”, conclusasi nel penultimo episodio con la morte di Kenton e la rivelazione sulla vera identità di Pete-il-senzatetto, per fare purissima filosofia, prendendo tutta la fantascienza accumulata fino a quel momento e mettendoci di fronte alle sue conseguenze più estreme e metaforiche.
Qualcuno potrebbe anche considerarlo un difetto, un momento di scarso equilibrio, ma per quanto mi riguarda, quando ti trovi di fronte un finale di tale, silenziosa potenza, non puoi fare altro che rimanere zitto zitto e godertelo, osservando il cervello che lentamente ti cola giù dal naso.

In precedenza Lily era stata informata da Katie che Devs era in grado di predire il futuro non oltre un certo momento, posizionato da lì a 21 ore, e che proprio una Lily strisciante e forse morente sembrava essere la protagonista degli ultimi eventi disponibili nella predizione. Lily, per puro spirito ribelle, voleva evitare di presentarsi da Devs, ma proprio il suo tentato omicidio da parte di Kenton, e la morte di Jamie, la convincono ad andare.
In questo senso, la storia porta avanti un’idea precisa: le predizioni di Devs sono così attendibili, che anche conoscendole è impossibile sottrarvisi. Un po’ quello che accadeva in un buon numero di miti greci, a partire da Edipo, a cui l’oracolo di Delfi predisse che avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre, cosa che puntualmente avvenne proprio mentre (e perché) Edipo cercava di impedirlo.
L’idea di determinismo che sta alla base di Devs – l’idea cioè che nulla accada per caso, ma sia conseguenza di un numero di variabili certamente enorme, ma teoricamente finito e per questo calcolabile – è la versione moderna e fantascientifica del Fato, che in questo caso non viene personalizzato e dotato di coscienza, ma rimane una forza in qualche modo superiore a tutti gli esseri umani, incapaci di sottrarvisi.
Una forza che, messa di fronte alla coscienza umana, può essere particolarmente spaventosa: l’avevamo visto nella penultima puntata, in cui gli sviluppatori di Devs si trovavano in una situazione di forte disagio e stress nel vedere la macchina predire i loro comportamenti di lì a venti secondi. Il fatto di trovarsi improvvisamente su un binario prefissato, piuttosto che in mezzo a un mare senza confini, era “troppo” per la loro mente (e quello stress era anche la giustificazione a qualunque mancato tentativo di ingannare la predizione).

Tutta la prima parte del finale di Devs è un lungo dialogo fra Lily e Forest, in cui i due discutono di quello che potremmo chiamare lo statuto ontologico di quello che vedono sullo schermo, cioè in questo caso la figlia di Forest. L’uomo sostiene che quella sia “proprio Amaya”, mentre Lily, che in Devs non era mai entrata prima, ribatte che per lei si tratta solo di un film, perché effettivamente nella sua percezione sono semplici immagini su uno schermo.
Quello che ci viene chiesto, però, è lo sforzo mentale di guardare quello stesso schermo dal punto di vista di Forest: sarebbe proprio la consapevolezza della natura deterministica dell’universo, e la conoscenza che su di esso ne deriva tramite Devs, a dare sostanza all’immagine di Amaya. Sapere che ciò che si vede sullo schermo riproduce con realismo sostanzialmente subatomico qualcosa che è effettivamente avvenuto, e che è strettamente collegato, attraverso lunghe catene di causa-effetto, alla realtà del qui e ora, permette a Forest di ottenere la pace dei sensi che tanto anelava. La bambina continua a essere morta, ma la possibilità di conoscerla così profondamente, più di quanto Forest non avesse fatto quando era viva, gli dà l’impressione di averla lì con sé, in una specie di tempo unico in cui passato, presente e futuro non esistono, perché sono tutti ugualmente conoscibili e replicabili nel momento che stiamo vivendo. Una realtà emotiva, se non fattuale, ma ugualmente efficace.

Quello a cui assistiamo, a ben guardare, è un dialogo religioso. Il determinismo, per Forest, è ormai una divinità impersonale, e non a caso ci viene poi svelato che “Devs” andrebbe letto con la V latina, che quindi è una U. Il progetto non si chiama Devs, si chiama Deus, e punta proprio a usare il calcolo matematico del computer come surrogato di una divinità onnisciente, che tutto vede e tutto conosce. La fede che Forest pone nella sua macchina è paradossalmente la causa di una sostanziale inerzia, un sedersi e fissare uno schermo, in attesa che un destino indipendente dalla volontà umana si compia a prescindere dai desideri di ognuno. Un approccio all’esistenza che finisce con il togliere ogni responsabilità e ogni colpa: Forest vive questo dettaglio come una liberazione, mentre Lily, al contrario, lo subisce come una gabbia da cui fuggire.
E proprio a lei viene lasciato il compito di ribellarsi. Dopo aver mostrato a Lily cosa riserva loro il prossimo futuro, cioè il fatto che la ragazza punterà la pistola verso di lui e lo ucciderà, Forest attende che il fato si compia, ed effettivamente sembra che le cose vadano come previsto: Lily impugna l’arma, porta Forest fuori dalla stanza, e sotto lo sguardo impaurito di Katie entra in quella specie di ascensore orizzontale che consente di arrivare al cuore di Devs, e all’interno del quale dovrebbe uccidere Forest, in preda al desiderio di vendetta.

Solo che non succede: Lily infatti getta la pistola fuori, appena prima che le porte si chiudano, causando lo sgomento di Forest. Il nostro povero geniaccio è sconvolto all’idea che Devs possa essersi “sbagliata”, e francamente pure noi, perché proprio l’infallibilità di Devs sembra il cuore dell’episodio e della serie. In realtà, però, a questo punto ci eravamo dimenticati di un dettaglio.
Negli scorsi episodi, quando ancora il computer non era in grado di offrire immagini molto più nitide di una generica nebbia, il giovane Lyndon era riuscito a risolvere il problema, con un trucco che però non era piaciuto a Forest, tanto che l’aveva licenziata: Lyndon infatti aveva preso in considerazione il multiverso, permettendo a Devs di contemplare anche le infinite variazioni della stessa linea temporale, così da poter ottenere un numero sufficiente di informazioni per generare immagini e suoni nitidi. Un escamotage che Forest non aveva accettato, lì per lì, perché la bambina che avrebbe visto in quel modo non sarebbe stata per forza la sua, ma avrebbe potuto essere la Amaya di qualunque universo parallelo, e abbiamo detto sopra che ciò a cui Forest anelava era una conoscenza pura, totale ed esatta, l’unico modo che aveva per sentirsi in pace con il suo lutto.

Ma la carne, si sa, è debole, e un paio di puntate fa ci era stato detto da Katie che sì, Forest aveva pubblicamente ripudiato l’operato di Lyndon, ma alla fine l’aveva sostanzialmente accettato, per il semplice fatto che le immagini nitide e precise ottenute con quella tecnica erano troppo belle ed emozionanti per poterle disconoscere con troppa facilità.
Arriviamo così al momento in cui Lily getta al pistola. Forest, ormai completamente succube del potere di Deus, pensa che Lily abbia sconfitto il determinismo, ma in realtà non è esattamente così: ha semplicemente fatto una scelta che ha dato vita a una nuova linea temporale. Devs, insomma, aveva fatto una previsione che sarà certamente corretta in una linea temporale che però non è quella che Lily crea gettando fuori la pistola.

Torniamo così al tema religioso, che qui diventa espressamente biblico. Forest credeva di essere il Messia, ma in realtà il vero Messia o, meglio ancora, il vero “primo umano”, si rivela essere Lily. Come Adamo ed Eva avevano colto la mela, macchiandosi del peccato originale che li aveva fatti cacciare dal paradiso, così Lily prende la conoscenza divina fornita da Deus non per piegarsi al suo volere, bensì per ribaltarlo, aprendo scientemente una nuova linea temporale. Non è un caso se i primi umani della leggenda colsero un frutto dall’”Albero della Conoscenza”: fu proprio la scelta di ribellarsi alle leggi divine, elevandosi alla stessa conoscenza di Dio, a condannarli all’esilio. La differenza fra Eva e Lily, però, è che mentre la prima (e tutte le donne dopo di lei) si è presa millenni di stigma per essere quella che fisicamente ha colto il frutto proibito, Lily diventa qui un’eroina dell’umanità, perché la sua capacità di ribellarsi fa sì che gli esseri umani possano di nuovo contare sul libero arbitrio, riaffermando un’indipendenza spaventevole, ma comunque migliore della semplice attesa di eventi già prefissati.
Questo è poi il motivo per cui Devs smette di funzionare, cioè risulta incapace di ulteriori predizioni: nel momento in cui la conoscenza arriva agli umani, e quella conoscenza viene usata per cambiare il futuro e aprire nuove linee temporali, ogni predizione risulta automaticamente impossibile, perché la sua stessa esistenza può causare il suo paradossale annullamento.
Cosa che avrebbero potuto fare anche gli svluppatori di Devs dell’episodio precedente, ma per la quale non avevano avuto la forza, forse perché erano “cresciuti” dentro Devs, mentre Lily arriva da fuori.

Lily e Forest, comunque, muoiono in entrambi i futuri. Nel primo è Lily stessa a causare la rottura e la caduta dell’ascensore, mentre nel futuro da lei scelto è Stewart a voler mettere la parola fine a Devs, apparentemente perché convinto che si sono spinti tutti troppo oltre, giocando con cose che dovevano essere lasciate lì dove stavano.
E si arriva così alle ultime scene, probabilmente quelle un po’ più deboli. Dopo la loro morte, Lily e Forest vengono ricreati da Katie all’interno di Devs. La conoscenza del computer, non più usata per fare predizioni da usare nella realtà extra-tecnologica, trova però un nuovo scopo, cioè la ricomposizione precisissima di molteplici coscienze che ora possono vivere in pace in un paradiso simulato. O almeno questa è una delle possibilità, perché Deus, ormai, non è più una macchina predittiva, ma un creatore di mondi possibili, e quindi esistono infinite coscienze di Lily e Forest, che abitano infiniti mondi, ma fra questi ce ne sono anche alcuni in cui poter essere felici.

Quando parlo di debolezza di queste scene, non intendo in termini assoluti, perché l’idea di un’immortalità ottenuta attraverso la riproduzione della coscienza, che però a sua volta è legata alla necessità che nessuno “stacchi la spina”, è un tema sempre interessante da sviluppare in relazione al nostro rapporto con la tecnologia. E non è un caso che sia lo stesso tema su cui in questi anni sta lavorando anche Westworld, che in queste settimane ha presentato la sua versione di Deus, (cioè Reobohan), immaginando sviluppi in parte diversi ma che restano legati all’idea di una tecnologia così pervasiva da ergersi al ruolo di divinità pagana che sfugge al nostro controllo.
La debolezza è solo legata al fatto che in Devs si assiste a un twist che appare un po’ slegato dagli sviluppi precedenti, e che sembra più che altro il tentativo di tirare fuori un abbozzo di lieto fine che dia un minimo di sollievo a questi poveri personaggi. È vero, anche la coscienza di Amaya è stata ricreata da (e in) Devs, ma è comunque il salto fra il tipo di fantascienza che abbiamo visto fino a quel momento, e l’improvviso inserimento di un’immortalità umana sublimata dalla tecnologia (immortalità comunque simulata, visto che Lily e Forest sono effettivamente morti, o “anche” morti), a lasciare un certo senso di spaesamento e, per questo, l’impressione di stare guardando qualcosa di posticcio, di pensato a tavolino per raggiungere un effetto riposante.

Si tratta comunque di un dettaglio. Alex Garland, con Devs, ha mostrato sia coraggio che prudenza: ha avuto il coraggio di scrivere e dirigere una serie pesantemente filosofica, che spalmava in otto (potenzialmente pesantissime) ore il tipo di fantascienza intellettuale che solitamente lui racchiude in due; e ha avuto la prudenza di inserire elementi di thriller abbastanza efficaci da dare ritmo alla storia, che intelligentemente è stata pensata come miniserie, in modo da evitare sbrodolamenti eccessivi.
Soprattutto, ha avuto la capacità di declinare una scrittura potenzialmente adatta a un saggio universitario, in una messa in scena densa e affascinante, che ha giocato per tutto il tempo sulla linea di confine umano e divino.
Tutto, in Devs, rimanda alla scienza e alla tecnologia. Allo stesso tempo, a partire dalla fotografia che accende e spegne ritmicametne le luci di Devs, quasi a simulare il respiro di una creatura gigantesca, Garland ha preso quella tecnologia e l’ha resa viva, quasi letteralmente, come se fosse un organismo pulsante in cui gli umani piccoli e fragili sono stati inglobati e manipolati, almeno fino all’arrivo della salvatrice, capace di rompere il circolo vizioso, aprendo all’interno di Devs una serie di mondi in cui Devs non esiste.

Quello offerto da Devs è stato un viaggio onirico e straniante, probabilmente non per tutti, ma che ha avuto il pregio di premiare chi ha voluto arrivare alla fine, con la netta impressione di aver visto otto episodi di un semplice show televisivo, capaci però di allargare gli spazi della mente e della consapevolezza. Ci siamo chiesti chi siamo, dove andiamo, cosa pensiamo sia importante per noi stessi, sia come specie che come individui, e siamo stati costretti a ragionare sui limiti della nostra mente, e sull’idea che la felicità, forse, non sta per forza in ciò che possiamo ottenere, ma anche in ciò a cui riusciamo a rinunciare.
Tanta, tanta roba.

Alex Garland confeziona il finale (quasi) perfetto di una miniserie da ricordare a lungo

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