5 Febbraio 2020

The Good Place series finale: lezioni di vita di Diego Castelli

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SPOILER SU TUTTA LA SERIE

Ancora due o tre settimane fa, quando ci si avvicinava lentamente al finale di The Good Place, provavo quasi in automatico a figurarmi cosa avrei scritto una volta finita la serie, e avevo l’impressione che buona parte di quell’ipotetico articolo fosse già scritto. E questo perché credevo che The Good Place, che in quel momento raccontava del tentativo di Eleanor, Chidi e gli altri di salvare l’umanità dalla cancellazione, non avrebbe potuto inventarsi un finale che si imponesse in quanto tale. Per dirla più semplice, credevo che le qualità del finale sarebbero state le stesse del resto della serie, di cui avevamo già discusso più volte.
E in fondo così è stato, se non fosse che una delle migliori qualità di The Good Place è sempre stata quella di essere “sorprendente”, una serie cioè capace di spiazzare lo spettatore con invenzioni sempre nuove, che prendevano il mondo accuratamente costruito fino a quel momento e lo rivoltavano più e più volte, mantenendo saldo lo sviluppo dei personaggi, ma mescolando continuamente lo scenario in cui quello sviluppo si inseriva. Ha quindi molto senso che il finale sia, ancora una volta, sorprendente, e che non si limiti a un semplice e banale coronamento del sogno dei protagonisti di finire effettivamente in paradiso.

Questa cosa in effetti succede, ma due episodi prima della fine della serie. Dopo aver dato a Chidi la responsabilità di costruire un modello sostenibile di paradiso, che convinca la Giudice a non premere il bottone che farebbe evaporare tutta l’umanità presente e passata, i nostri riescono effettivamente a offrire ai capoccia dell’aldilà un’alternativa praticabile: un sistema di test e progresso che consenta agli umani di guadagnarsi il paradiso durante una fase intermedia di crescita personale (la stessa crescita, a conti fatti, di Eleanor e degli altri), lasciando comunque ai demoni la possibilità di mettere le grinfie sugli irriducibili malvagi.
Bene, bravi, missione compiuta, ora potete prendere la mongolfiera che vi porterà nel “vero” Good Place, quello che di fatto non è esistito per secoli, e che ora va ricostruito dalle fondamenta.
La serie poteva anche finire qui, regalandoci l’agognata vittoria dei nostri amati personaggi. Ma sarebbe stato troppo facile, una conclusione logica e lineare per uno show che, fino a quel momento, aveva fatto vanto della sua capacità di inventare sempre cose nuove.

E allora ecco il twist. Nel suo lungo finale, a cui dobbiamo aggiungere le ultime scene del penultimo episodio, The Good Place diventa improvvisamente un serie un po’ diversa, più impegnata, o forse dovremmo dire espressamente politica.
Tutto nasce dalla volontà, da parte degli autori, di prendersi un rischio ulteriore: non solo raccontare di come un gruppo di anime sfigate riesce a entrare in paradiso, ma anche spiegare cosa succede una volta che ci arrivano. In questo senso, seguendo lo stile tipico della serie, il Good Place non è poi tanto diverso dalla nostra realtà, a cui però vengono aggiunte infinite possibilità di magico intrattenimento, e tolti tutti i problemi, i rischi, e naturalmente l’ombra della morte. Osservando il comportamento di alcuni residenti di lungo corso, però, Eleanor e gli altri si rendono conto di un problema: avere tutta l’eternità per fare qualunque cosa, senza alcun rischio, può portare anche all’apatia, alla noia, può far dimenticare il valore del singolo momento, quando di momenti se ne hanno infiniti. Da qui, nel penultimo episodio, l’idea di Eleanor di introdurre la possibilità di morire “sul serio”, cioè di varcare una soglia che conduca alla completa fusione dell’anima con l’universo.
Un primo risultato è che gli abitanti del paradiso, venendo a conoscenza della possibilità teorica, per loro, di scomparire davvero, ricominciano a dare valore alle singole esperienze che possono provare, alle nozioni che possono imparare, alle relazioni che possono stringere. L’idea stessa della morte, che pure per loro non è obbligatoria, riesce di per sé a dare senso alla loro vita ultraterrena.
E la serie, di nuovo, poteva finire qui.

Ma no, manca ancora un pezzo. Non si può introdurre un elemento di portata filosofica così vasta (in una serie che, fra un effetto speciale e una risata, è sempre stata molto attenta alle riflessioni filosofiche, etiche e morali che metteva sul piatto), e non vedere come viene gestito dalle persone che conosciamo meglio, cioè i protagonisti.
Si arriva così a un doppio finale in cui tutti i personaggi principali sono chiamati a riflettere sulla possibilità di morire per davvero, e la sorpresa è che molti decidono di farlo. Dopo quattro stagioni in cui abbiamo assistito al tentativo spasmodico di andare in paradiso, alla fine del percorso assistiamo alla scioccante decisione, da parte di molti protagonisti, di uscirne per sempre, sparendo nel cosmo.
Scritta così, l’idea è dirompente e, d’istinto, pure fastidiosa. Ma come, ti seguo per quattro anni sperando che tu possa guadagnare la beatitudine eterna, e tu ci rinunci?

L’episodio, però, ha tutto il tempo di spiegarci bene la faccenda.
Il primo è Jason, forse non a caso il personaggio più semplice e ingenuo della serie: una volta realizzata la partita perfetta di Madden, in compagnia di suo padre, Jason sente di non avere più nulla da chiedere alla sua esistenza. Raggiunge un livello di pace interiore tale, da non avere più bisogno di altro, e così decide di varcare la porta e annullarsi nell’universo.
Dopo toccherebbe a Tahani, che una volta riappacificatasi con i suoi genitori e dopo aver spuntato tutte le “cose da fare almeno una volta” dalla sua lista (fra cui c’è anche diventare una provetta artigiana del legno, sotto la supervisione del mitico Nick Offerman), sarebbe pronta ad andarsene. Lei però rinuncia, perché trova una nuova occupazione, cioè quella di architetto degli aldilà.
Al contrario, Chidi decide di sparire, dopo aver raggiunto tutta la conoscenza che voleva nella vita e dopo essere diventato una persona migliore e più completa, soprattutto ai suoi stessi occhi. Una scelta non scontata, considerando Chidi ed Eleanor erano finalmente riusciti a coronare il loro sogno d’amore: da bravi bevitori di storie occidentali facciamo fatica a concepire un “vissero per sempre felici e contenti” dove quel “per sempre” viene smontato dagli stessi personaggi.
Eleanor, però, dopo un primo momento in cui quasi costringe Chidi a rimanere con lei, capisce che proprio il lasciarlo andare è l’atto d’amore più grande che può fare per lui. Aiutato poi Michael a coronare il sogno che nemmeno sapeva di avere (cioè quello di fare una vera esperienza da umano), anche Eleanor capisce che è giunto per lei il momento di superare la porta, e diventare una pura energia che poi finisce anche con l’influenzare il mondo degli umani, in un ultimo saluto al suo vecchio amico e mentore.

Se non si fosse ancora capito, ma in realtà lo si capisce subito, l’ultimo episodio di The Good Place non rinuncia alla sua anima colorata e scanzonata, ma allo stesso tempo si trasforma in uno straordinario trattato sull’autodeterminazione o, se vogliamo parlare di argomenti più concreti, sul fine vita e sull’eutanasia. Cos’è quella famosa porta, se non la possibilità pura e semplice, da parte dei personaggi, di suicidarsi quando ritengono di aver concluso il loro percorso di vita?
Il tema, negli Stati Uniti come in Italia, è fra i più delicati, e suona quasi strano doverne parlare in relazione a una comedy fumettosa e simpatica. Ma l’ultimo strappo creativo di The Good Place è proprio questo, una riflessione molto più seria su ciò che davvero significa, o può significare, la morte.

Nel tentativo di immaginare la natura più intima del paradiso, per lo meno nella limitata percezione e nel limitato intelletto disponibile agli umani, Michael Schur e compagni non lo identificano con la sua componente più giocosa e festosa, con l’idea di un’eternità di bagordi senza fine. Al contrario, il paradiso di The Good Place è un luogo che garantisce ai suoi abitanti un privilegio che pochissime persone hanno in vita, e a cui spesso diamo poca importanza: la possibilità cioè di riempire l’esistenza con tutte le esperienze e le emozioni che vogliono, e di scegliere anche il momento in cui quell’esistenza deve giungere al termine. La totale libertà, la vera autodeterminazione concessa dal paradiso di The Good Place, è quella di disporre della propria esistenza come meglio si crede, senza condizioni poste da altri, compresa la possibilità di non usufruire di quella eternità che pure si è resa disponibile.

Inutile dire che questa semplice idea assume un peso politico non indifferente, perché nasce in una società in cui è ancora molto radicata l’idea che la vita sia un dono (del divino), e che come tale non se ne possa disporre a piacimento. Ma The Good Place ha passato quattro stagioni a raccontare una cosa diversa, un mondo in cui le vite degli umani sono pedine di una faida millenaria fra demoni, in cui non si è mai visto nessun architetto supremo che dia linee guida immutabili, e in cui alcuni umani hanno avuto la possibilità di lavorare per costruire per sé un destino diverso da quello che sembrava già scritto altrove.
È per questo che il finale di The Good Place è sì sorprendente (perché spezza la retorica della felicità “eterna” dei protagonisti), ma anche pienamente coerente con quanto raccontato fino a quel momento: se c’è una cosa per cui Eleanor e gli altri hanno combattuto con le unghie e con i denti, è la possibilità di scegliere chi essere e dove andare. E la libertà ultima, in questo senso, è anche quella di rifiutare o restituire quel dono che in effetti dono non è.

E in ultimo, se è vero che la partenza di Chidi o di Jason ci rattrista, perché in qualche modo non riusciamo a capirla, è altrettanto vero che la serie ci ha ribadito tante e tante volte che la percezione dei personaggi sull’esistenza non può che essere molto diversa dalla nostra, perché loro sono arrivati a vivere un numero incalcolabile di vite, mentre noi siamo ancora fermi a una sola. E chi può dire come ci si senta dopo tutto quel tempo, considerando che ognuno di noi, a 40 anni, si sente molto diverso da quando ne aveva 30 o 20?
E se questo è vero, allora possiamo fare un ulteriore salto nella riflessione, e chiederci che diritto abbiamo, anche nelle nostre singole vite, di giudicare quelle degli altri, prendendo decisioni su esistenze che non sono la nostra, e che quindi potrebbero portare a percezioni completamente diverse da quelle che abbiamo in testa noi.

The Good Place non termina lanciando petizioni per cambiare leggi, è una comedy costruita per intrattenere e che c’è riuscita benissimo per quattro stagioni. Ma nella sua comicità, nei suoi personaggi buffi, nel suo giocare con tanti spunti e scenari dal sapore millenario, è riuscita anche a far passare un messaggio inaspettato, che punta a grattare lo strato più profondo del nostro essere umani, e l’ha fatto non imponendo la sua visione, ma proponendola, offrendola per un dibattito che, proprio quando la serie varca la sua porta verso l’universo, si fa molto più importante e rilevante di quanto le sue buffe gag facessero pensare.
Per quanto ognuno possa avere le sue idee sui temi trattati, credo che ci sia una verità su cui si possa concordare: se tutte le serie fossero al livello di The Good Place, sarebbe una televisione migliore.

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