22 Novembre 2019 5 commenti

The Affair series finale: dal gioco stilistico alle lezioni di vita di Diego Castelli

Un commento finale a una serie cambiata quanto i suoi personaggi

Copertina, Olimpo, On Air

SPOILER SU TUTTO

Non avevo ancora scritto niente di specifico sul finale di The Affair, e questo non va bene. Dovrebbe essere una regola ferrea quella di scrivere un ultimo saluto a serie che hai visto per almeno 5 stagioni (e che, nel caso di The Affair, per vari motivi sembrano 12). Poi non sempre ci si riesce, ma non significa che non ci si possa impegnare.

Alla fine dei conti, The Affair è una serie strana, che rientra in un gruppo tutto particolare composto di prodotti che nascono in un modo (magari con una qualche specificità tecnica) e che poi diventano qualcos’altro, per lo meno negli occhi degli spettatori. Un gruppo di cui, per esempio, fa parte la mitica 24, nata e pubblicizzata inizialmente come esperimento tecnico (un racconto televisivo narrato in tempo reale) e che col tempo è diventata sopratutto “la serie con Jack Bauer”, tanto era diventato importante il ruolo e il carisma del suo protagonista.
Con The Affair è successa più o meno la stessa cosa. Al netto del motivo scatenante della trama (il tradimento di uno scrittore sposato e padre di famiglia, che si innamora di una cameriera a sua volta sposata), a colpire nei primi episodi era la modalità di messa in scena, di cui negli scorsi anni abbiamo parlato molto: il doppio (e poi triplo, o quadruplo) punto di vista sugli stessi avvenimenti forniva uno strato di senso aggiuntivo rispetto alla media dei drama. Solitamente, quando seguiamo una serie tv, abbiamo l’impressione di ricevere una rappresentazione “oggettiva” degli avvenimenti, anche se poi naturalmente possiamo farcene una nostra opinione, parteggiare per questo o quel personaggio, e via dicendo. Con The Affair, invece, Hagai Levi e Sarah Treem ci raccontavano una verità molto più sfumata e problematica. Ci dicevano, cioè, che la difficoltà non sta solo nel confronto di opinioni su una materia comune, quanto piuttosto nel fatto che quella materia comune spesso non c’è, perché nelle relazioni (amorose ma non solo, pensiamo alla politica) quello che io penso essere la verità oggettiva non lo è, perché tu puoi aver percepito un’altra verità, che a tua volta ritieni oggettiva, e che non lo è nemmeno lei.

Nelle prime stagioni, The Affair ha fondato su questa improvvisa presa di coscienza buona parte del suo fascino. Non solo c’era l’impegno, da parte nostra, per capire dove schierarci e da chi farci appassionare, ma ci era anche chiesto lo sforzo di navigare a vista fra le varie percezioni, cercando una verità sostanzialmente inconoscibile ma, proprio nella sua inconoscibilità, portatrice di una profonda consapevolezza sulla nostra intrinseca fallibilità in quanto esseri umani. Un racconto di persone piene di difetti, insomma, in cui lo spettatore veniva quasi fisicamente calato dentro punti di vista parziali e quando sempre “colpevoli”, in cui tutti avevano almeno un po’ di ragione e un po’ di torto.
Una cosa nuova, per lo meno in questa scala seriale così metodica, che ha avuto il suo bel valore per due o tre anni.

Poi la serie ha cominciato a cambiare. Al di là di alti e bassi, e passi falsi più o meno vistosi (ancora ci ricordiamo la bruttura del finale della terza stagione, che a momenti non sembrava neanche un finale), è successo un po’ quello che era successo con 24: a prescindere dal meccanismo tecnico, che comunque è sempre rimasto lì, con poche variazioni, abbiamo sviluppato un interesse più sincero e specifico per i personaggi, il cui destino ha iniziato a interessarci di più rispetto alle semplici (seppur interessanti) implicazioni del gioco dei punti di vista. Questi sono stati anche i momenti in cui un po’ di spettatori se ne sono andati, ormai abituati allo stile narrativo della serie, e annoiati dal fatto che stava diventando un po’ una soap opera (o, meglio, “più soap opera di prima”).

A questo va poi aggiunto quello che è il vero sconquasso subito da The Affair, cioè l’abbandono di metà dei protagonisti: l’uscita di scena di Ruth Wilson e Joshua Jackson ha ovviamente creato degli squilibri, messo un bastone fra le ruote all’alternanza delle prospettive (per avere più punti di vista ti servono più personaggi), costretto gli sceneggiatori a riposizionare la serie allargando la prospettiva di personaggi prima marginali (come Whitney) o sviluppando maggiormente caratteri e situazioni che inizialmente avevano una funziona diversa. Come Helen, che all’inizio aveva soprattutto il ruolo della moglie tradita e poi (con ottimi risultati, peraltro) è diventata un personaggio più a tutto tondo, a sua volta portatrice di un sacco di temi e di istanze che non facevano parte del cuore iniziale della serie.

Più in generale, è bello quando riesci a constatare che una serie tv, per sua natura, dura nel tempo, e non può che evolvere insieme a chi la scrive, dirige, interpreta. Arrivati all’ultima stagione, con gli squarci nel futuro quasi post-apocalittico in cui vive Joanie, ci si rende conto che alcune scelte possono suonare un po’ posticce (tutta la questione #MeToo, per quanto interessante, è sembrata figlia della specifica volontà di inserire il tema, più che una conseguenza inevitabile della natura dei personaggi), ma allo stesso tempo The Affair ha preso una direzione nuova senza perdere l’elemento fondante della sua narrazione, cioè il racconto delle conseguenze di un tradimento.
Considerando quanta strada è stata fatta da quella scappatella, e quanto sono cambiate le vite in essa coinvolte, la serie ha pian piano smesso di essere un gioco stilistico ed etico sui punti di vista e sulle relazioni, per diventare un più grande affresco sulla vita, sulle scelte che compiamo, sulla capacità di accettarne le conseguenze e, in ultima analisi, di imparare da essere.

Nelle ultime puntate di The Affair, e in particolare nel finale, si continua a parlare di traumi che superano le generazioni (tema affrontato, fra l’altro, anche nella scorsa puntata di Watchmen), e si comincia a comprendere che, alla fine di una serie ma anche alla fine della vita, più che vivere e raccontare le ferite e i dolori, diventa importante capire come lenire le prime e superare i secondi. Per lungo tempo The Affair ha malmenato i suoi personaggi, li ha scossi con passioni profonde e irrefrenabili, li ha storditi con sentimenti che non riuscivano a comprendere e gestire. Poi però, quando arriva l’età adulta (metaforica o meno che sia) si rende necessario un bilancio e una comprensione.

Il cuore della serie, così, non è più il tradimento, ma il perdono. Perdono degli altri, ma soprattutto di se stessi. È per questo che le riconciliazioni finali fra Noah e Helen, fra loro e i loro figli, e fra Joanie e il marito, acquistano un senso e una logica. Perché sì, quando capiamo che i due ex coniugi finiranno col tornare insieme, ci può anche prendere un momento di fastidio, come se la ricomposizione del matrimonio dopo il tradimento fosse una forzatura in un terzo millennio in cui, specialmente alle donne, viene ricordato che non è più necessario abbassare la testa e subire gli atteggiamenti farfalloni dei mariti.
Ma questo pensiero istintivo non si applica più a queste specifiche identità: qui abbiamo personaggi che hanno passato di tutto, che in più di un’occasione sono stati messi di fronte al peso delle loro scelte, che hanno dovuto farci i conti e, spesso, ricavarne disagio e dolore. Hanno pagato pegno, insomma, ma soprattutto sono stati in grado di imparare dai loro errori. Alla fine, quindi, Noah non è solo un marito fedifrago che cerca di ingannare la ex per tornarci insieme e poi tradirla di nuovo. E Helen non è una sprovedduta mogliettina che aspetta solo di essere cornificata un’altra volta. Sono invece due persone che hanno un’esperienza nuova rispetto a prima, e che con essa si sono meritate il diritto di scegliere cosa fare del resto delle loro vite. E se quella scelta ricade sul “tornare insieme”, chi siamo noi per dire che sbagliano?

Quando Helen e Noah si riconciliano, in un’atmosfera perfino zuccherosa, da filmettino romantico, lo fanno non per caso, ma per scelta, sapendo che potrebbe essere un (nuovo) errore, ma consci che questa volta non c’è nulla di nascosto o di ingannevole. Si conoscono per davvero, come il Noah anziano sottolinea a Joanie nel futuro. Tutto quello che hanno passato gli ha permesso di conoscerci come mai avrebbero creduto possibile, e quando due persone si conoscono in questo modo, nessuno può giudicare le decisioni che prenderanno per se stessi.
Il fatto che un buffo Noah ormai canuto danzi su un promontorio alla fine di una vita finalmente serena, è chiaramente un regalo ai fan, che dopo cinque, sei, sette anni di una serie, sperano nel lieto fine anche quando non sono disposti ad ammetterlo. Ma per quanto sia una visione ottimista o dolciotta, è comunque coerente, perché se passi cinque stagioni a menare i personaggi perché imparino qualcosa dalla vita, il fatto che alla fine l’abbiano imparata mi pare solo ragionevole. Ed è questo che ognuno di noi spera, mentre guarda questo finale. Speriamo che a prescindere da qualunque cosa ci succeda nella vita, per assurda o dolorosa che sia, anche noi si possa fare come i protagonisti di The Affair: imparare dai nostri sbagli e dolori, capire quello che ci serve davvero, prendercelo, e poi ballare in cima ai dirupi.

Argomenti the affair


CORRELATI