Watchmen: a metà stagione, una serie orgogliosamente di nicchia di Diego Castelli
Non la Watchmen che meritiamo, ma quella di cui abbiamo bisogno (semi-cit.)
SPOILER FINO AL QUINTO EPISODIO COMPRESO
Qui a Serial Minds abbiamo sempre detto che una serie tv, per essere davvero “buona”, dovrebbe essere fruibile e apprezzabile indipendentemente dal materiale originale da cui è tratta (che spesso sono romanzi). L’idea è che se per capire una serie tv bisogna leggere un libro, allora forse basta il libro.
Ovviamente, però, ogni regola ha le sue eccezioni, che possono essere influenzate da vari elementi come la fama del materiale di partenza (se mettiamo in scena una riedizione di Romeo e Giulietta è lecito richiedere allo spettatore la consapevolezza che di solito i due alla fine schiattano, anche solo per giocarci su), o dal punto in cui la nuova storia si colloca (girare un remake è diverso e più stringente che girare un seguito).
Com’è, come non è, in questi primi 5 episodi di Watchmen ci si rende conto che il debito e il collegamento con il materiale originale, cioè il fumetto di Alan Moore, è quando mai importante, ma non ci sentiamo di condannare la scelta perché, anzi, questa Watchmen si sta rivelando orgogliosamente di nicchia, e in fondo è giusto che sia così.
Nel recensire il pilot ci eravamo detti che, più che riproporre gli stessi eventi del fumetto, Damon Lindelof e compagni avrebbero dovuto tentare di cogliere un’atmosfera e un’esperienza.
Ebbene, dopo cinque episodi particolarmente intricati, dove i riferimenti al fumetto rischiano effettivamente di complicare un po’ troppo la vita a chi non l’ha letto (anche se personalmente non posso avere la percezione chiarissima di questo problema), ci sembra però che, in quell’ottica, sia stato fatto un lavoro pregevole, che è partito da un scelta non banale: sì, Watchmen è stato venduto come la nuova “cosa grossa” di HBO, una rete la cui ultima “cosa grossa” è stata Game of Thrones, cioè un fenomeno mondiale. Lindelof, però, ha evidentemente preferito evitare di costruire una serie in qualche modo mainstream, dicendo una cosa tipo “mi avete ingaggiato pur sapendo che venivo da The Leftovers, e quindi ora vi beccate The Leftovers”, e a conti fatti la scelta non poteva essere più azzeccata, perché l’unico modo per rendere un po’ di giustizia a un fumetto stratificato, complesso, visionario come Watchmen, era mettere in piedi una serie che almeno provasse a essere stratificata, complessa e visionaria.
Questa unità di intenti e approcci, più che sovrapposizione di narrazioni, era l’unica scelta intelligente, e il quinto episodio stagionale è forse quello che più di tutti mostra l’efficacia dell’operazione.
È un episodio di grandi rivelazioni (dai piani di Veidt al coinvolgimento del senatore Keene con la Cavalry), ma che ancora lascia aperti interrogativi importanti (i piani della Cavalry coi portali, per dirne uno), eppure è l’episodio che, concentrandosi sull’infanzia e la crescita di un personaggio enigmatico come Wade ‘Looking Glass’ Tillman, ci offre una prospettiva insieme individuale e universale sugli eventi e sui temi che già agitavano il fumetto.
Gli spunti sarebbero tanti, i riferimenti incrociati innumerevoli. Ma parliamo per un attimo di paranoia.
La paranoia era uno dei temi principali del fumetto di Alan Moore, concepito al culmine della Guerra Fredda, quando ancora il timore di una guerra nucleare era fondato. Watchmen è pieno di paranoia, di paura, e si chiude con un genio folle che, per evitare un conflitto a suo dire imminente, materializza un calamaro mostruoso che, insieme a un’onda psichica di proporzioni ciclopiche, uccide milioni di persone salvandone però miliardi, perché proprio quell’evento apocalittico fa sì che Stati Uniti e Unione Sovietica mettano da parte le loro divergenze per far fronte a un misterioso nemico comune.
Tutto questo, nella Watchmen di HBO, rappresenta il passato, e già pone qualche questione interessante nel constatare la differenza fra la conoscenza dei lettori del fumetto, e quella degli spettatori della serie: i primi non sapevano, al momento dell’uscita degli albi, se una guerra russo-americana ci sarebbe stata o no, mentre noi sappiamo che non c’è stata, cosa che ammanta le scelte di Veidt di un ulteriore alone di follia che all’epoca poteva essere più sfumato.
A non cambiare, o non cambiare sostanzialmente, è la paranoia che Lindelof inserisce comunque nella serie. Non è la stessa paranoia politica e inter-nazionale, ma è pur sempre paranoia: personale, razziale, inter-dimensionale. Il personaggio di Wade, che era presente al momento della comparsa del calamaro gigante che ha cambiato la vita sua e di molti altri, è un uomo che vive di paranoia, che si nasconde dietro una maschera a specchio che in realtà è fatta di un materiale usato dai complottisti per proteggersi dalle onde psichiche (un po’ come i cappelli di carta stagnola fatti da chi non vuole essere soggiogato dagli alieni), un uomo che collauda quasi quotidianamente un allarme in grado di consentirgli una fuga precipitosa in un bunker sotto casa sua, e che va in sbattimento quando si rompe. Soprattutto, un uomo che quando viene a conoscere la Verità, cioè che il calamaro era stato pensato e progettato da un uomo del suo stesso mondo, sente scricchiolare e poi crollare tutte le sue certezze, e che reagisce in modi imprevedibili e tutti da sviluppare.
In questo senso sono riuscitissimi i continui paralleli fra il mondo della serie e il nostro. Il 2 novembre, giorno della comparsa del calamaro, altro non è che l’11 settembre del mondo di Watchmen (anzi, peggio), un punto di non ritorno che cambia le abitudini di vita, che genera traumi e stress, che impone sedute di gruppo per superare lo shock anche a distanza di molti anni. E ugualmente riuscito è il riferimento, da parte di Renee (la donna della Cavarly inviata a reclutare Wade), a Pale Horse, il film di Steven Spielberg vincitore di molti oscar in cui la comparsa del calamaro veniva raccontata in bianco e nero, con il dettagli di una bambina col cappottino rosso: il riferimento chiarissimo a Schindler’s List, un film che nel mondo di Watchmen Spielberg non ha girato, usando però elementi di stile che già aveva in mente per raccontare un evento ancora più potente dell’Olocausto, ci dà una vertigine che ci permette di comprendere la profondità e importanza del parallelo fra le due realtà.
Esattamente come Alan Moore mise in scena un mondo di supereroi che non era per nulla il classico mondo di supereroi, per raccontare fra le altre cose la situazione sempre più difficile di una nazione impaurita e senza più riferimenti precisi e notizie certe, così Lindelof costruisce un mondo di verità nascoste e personaggi danneggiati, che a dispetto delle maschere e dei portali interdimensionali nasconde i soliti, fondamentali problemi umani: la paura, la solitudine, la difficoltà nel trovare un senso alla vita e alle nostre azioni quotidiane, soggiogate dalle macchinazioni di entità più potenti, più misteriose, più invisibili.
Wade era un personaggio completamente alieno, all’inizio, che però in questo episodio conquista una sacco di umanità. Non perché ci si possa identificare pienamente in lui in tutto e per tutto (almeno, lo spero per voi), ma perché le sue insicurezze, le sue paure, le sue fragilità (che, paradossalmente nascono più da un’umiliazione sessuale che dalla comparsa del calamaro), risuonano in noi e nella nostra quotidiana difficoltà nel leggere le dinamiche di un mondo che ogni giorno sembra rivelare segreti e lati oscuri che, nonostante la molteplicità di fonti informative a nostra disposizione (o, forse, proprio a causa di quella molteplicità), ci sembrano sempre più sfuggenti.
Poi naturalmente potremmo stare qui due ore a parlare di mille altri dettagli, e a fare il recap di ogni singolo episodio. Cioè, vogliamo parlare di quanto è bello e fascinoso il viaggio planetario di Veidt, spedito con una catapulta su un altro pianeta (un luna di Giove?) dove usa i corpi congelati dei suoi amici cloni per scrivere il messaggio “Save Me”, forse diretto al Dottor Manhattan?
(rileggete bene la frase: un uomo “spedito con una catapulta su un altro pianeta dove usa i corpi congelati dei suoi amici cloni per scrivere il messaggio ‘Save Me’”, e poi immaginate le persone che, sedute alla scrivania, si sono inventate sta roba senza l’ausilio di droghe, almeno si spera).
Più in generale, però, trovo che il quinto episodio di Watchmen abbia sancito in via definitiva alcune verità sulla serie: no, non è un’operazione commercialona che sfrutta un vecchio cult per attirare spettatori. È invece un’opera orgogliosamente di nicchia, che può piacere o non piacere e perfino respingere, ma che coltiva un’onestà di fondo: tentare di riprendere, sviluppare e aggiornare ciò che aveva reso celebre il fumetto originario, nella speranza di offrirci almeno un’ombra dell’inquietudine e della complessità di quel capolavoro. Meglio di così, per me, era difficile.