The End of The F***ing World seconda stagione: l’affetto rimane, la magia no di Diego Castelli
Una seconda stagione che non era necessaria, che si vede pure volentieri, ma che non ha la forza dirompente della prima volta
Funziona sempre così, giusto? Una serie o un film vengono tratti da un libro o da un fumetto; nel giro di poco (un paio d’ore, una prima stagione) raccontano tutto quello che era stato contemplato dal materiale di partenza; magari fanno anche successo; e poi si trovano di fronte alla Grande Domanda: che facciamo, andiamo avanti, anche se a questo punto brancoliamo nel buio prendendoci più rischi? Oppure lasciamo perdere e ci dedichiamo ad altro senza rischiare di “sporcare” quanto fatto finora?
Gli esempi recenti sarebbero moltissimi, dalla seconda stagione stagione di Big Little Lies all’ultima di Game of Thrones (anche se in questo caso avrebbero sì voluto avere i libri su cui basarsi, ma Martin batteva la fiacca), e oggi ne affrontiamo un altro, ovvero una seconda stagione di The End of The F***ing World che ha dovuto staccarsi dai lidi sicuri della graphic novel di Charles S. Forsman, per trovare una strada propria ed esclusivamente televisiva.
È andata bene nella misura in cui rivedere Alyssa e James è stato divertente e piacevole. Ma il livello di sorpresa e approfondimento della prima stagione no, spiace, nisba.
Senza dilungarci troppo sul primo ciclo di episodi (di cui parlammo qui), basterà ricordare che ci era piaciuto il senso di una verosimiglianza, e di un percorso. Una storia surreale di violenza e psicopatia, a metà fra Wes Anderson e i Coen, tenuta però saldamente a terra da uno spiccato realismo dei sentimenti, in cui due adolescenti decisamente strani e “diversi” trovavano nell’amore reciproco la forza per scuotere la propria esistenza e arrivare a una qualche migliore comprensione di se stessi.
Era questa magica alchimia che rendeva la prima stagione evidentemente “chiusa”. Non perché i due teenager protagonisti avessero imparato tutto dalla vita, naturalmente, perché avevano superato un primo traguardo così “grosso”, da farci pensare che ormai la loro storia poteva anche chiudersi lì. E questo nonostante un finale comunque sospeso, che di certo non era finito con una cavalcata verso il tramonto, ma anzi con una fuga interrotta e un corpo riverso sulla spiaggia, sanguinante.
Ecco, per rendere davvero meritevole una seconda stagione, per farle reggere il confronto, serviva un altro percorso ugualmente rivelatorio, cioè la possibilità, per i personaggi, di infilarsi in situazioni nuovamente assurde ma che, ancora una volta, gli permettessero di fare nuovi passi sulla strada della loro umanità.
Così però non è, perché la seconda stagione di The End of The F***ing World batte più o meno lo stesso percorso, con un amore che però questa volta, più che strumento di crescita, è un fortino dentro cui difendersi.
Nella prima stagione James partiva come psicopatico autodiagnosticato, in cerca della sua prima vittima, e Alyssa come emarginata snob e volgare a cui non frega niente di nessuno. Incontrandosi, i due sperimentavano un’emozione tutta da definire che riusciva a scuoterli nel profondo, portandoli a mettere in discussione le loro certezze, trovando nuovi equilibri.
La seconda stagione, invece, è un tentativo di tornare a quegli stessi equilibri: James riesce a evitare la prigione ma è costretto a stare a lungo in ospedale, e nel frattempo non fa altro che pensare ad Alyssa. Lei, specularmente, cerca di rifarsi una vita insieme alla madre e alla zia, arriva perfino a decidere di sposarsi così, tanto per fare, ma dentro di sé sa benissimo che si sta accontentando, che dalla vita vorrebbe altro, benché non sappia ancora con precisione cosa sia.
Se la prima stagione era un muoversi in avanti, quindi, la seconda è un tentativo di tornare indietro, alla magia delle emozioni già provate, e ha quindi un sapore in qualche modo nostalgico. Il che ha pure il suo senso, nell’evoluzione dei personaggi, ma quando una storia dà l’impressione di voler tornare indietro, piuttosto che andare avanti, c’è sempre qualcosa che stona.
Anche il pretesto di partenza, il motore che muove tutti gli otto episodi, è saldamente ancorato alla prima stagione: a far reincontrare, seppure indirettamente, Alyssa e James, è Bonnie, una ragazza che si era innamorata di Clive, il professore molestatore che James aveva ucciso per difendere Alyssa, due anni fa. Quasi tutto il primo episodio è proprio per Bonnie, per raccontarci il rapporto malato e assurdo in cui era finita, e quindi per spiegarci il perché della sua volontà di uccidere i protagonisti, a cui spedisce due proiettili con sopra inciso il loro nome.
Il resto della stagione, però, non riesce ad allontanarsi da questi pochi concetti, la ricerca di Bonnie da una parte e il ripristino dell’amore fra Alyssa e James dall’altra. A volte può perfino diventare stucchevole, visto che James, ben lontano dall’aspirante omicida della prima stagione, qui è proprio un adolescente innamorato che non vede altro che la sua bella, senza riuscire a imprimere una forza originale ai suoi comportamenti e parole. Perfino il finale, che non stiamo a descrivere nel dettaglio, appare meno lanciato e più normalizzante.
Una semplice delusione, quindi?
Vabbè, non esageriamo. Se il difetto principale della seconda stagione di The End of The F***ing World è quello di non saper essere originale e sorprendente come la prima, diventandone quindi niente più di una costola, bisogna pure dire la costola di uno show così bellino sa essere bellina anche lei. Pur diventando una questione di mestiere, più che di vero slancio creativo, questi otto episodi si portano dietro una certa quota di divertimento e tenerezza (senza contare che durano complessivamente molto poco, e quindi risultano facilmente digeribili). Ci sono morti improvvise e un po’ assurde, scene di suspense genuina, riflessioni sulla vita, momenti di disagio molto formativi, il tutto accompagnato dagli sguardi indolenti e malinconici dei due protagonisti, Alex Lawther e Jessica Barden, due interpreti che ormai non possiamo non amare anche se pure in questa stagione, a volte, viene voglia di prenderli bonariamente a sberle, a riprova del fatto che spesso i personaggi seriali più adorabili sono quelli a cui, se li conoscessi nella vita reale, spareresti senza pensarci due volte.
In conclusione, però, una cosa va detta: siamo stati serenamente disposti ad accettare una seconda stagione un po’ sottotono perché insomma, siamo serialminder e ci piace sempre avere “qualcosa in più”. Però possiamo anche dire che ci basta, e il fatto che Charlie Covell, creatore dello show, abbia dichiarato che una terza stagione non è in programma, ci fa pensare che tutto è bene ciò che finisce bene.