Deep Streaming: Shtisel e gli ebrei ortodossi su Netflix di Gianluca Bortolotto
Quelle serie fatte apposta per svelare realtà impensabili
Per le vie del quartiere di Mea Shearim si cammina lentamente, lo sguardo è basso, solo un semplice saluto distoglie il pensiero rivolto alla preghiera del sabato o all’ultima lettura della Torah: Shalom Shalom, e’ il saluto, Shalom aleichem è la risposta del giovane Akiva Shtisel. Occhi azzurri, sguardo ingenuo e distratto, un futuro già scritto nei testi custoditi nelle sinagoghe di Gerusalemme e una vita già vissuta prima di lui dal padre rabbino Shulem.
Shtisel , soap opera yiddish in onda su Netflix, è ambientata nella comunità degli ultra ortodossi Haredim di Gerusalemme: ancorati al passato e contrari a qualsiasi forma di progresso e tecnologia, questi fieri timorati del cielo organizzano la propria esistenza consultando la Torah per ogni questione, cercando di trovare un compromesso fra le proprie tradizioni millenarie e il mondo contemporaneo che li circonda.
“Chi mi sa dire dove la torah parla di ippopotami? Non lo sa nessuno? Sapete il perché? Perché la Torah non parla di ippopotami”. Per il rabbino Shulem gli ippopotami non esistono, come non esistono le televisioni, i telefoni cellulari e la corrente elettrica, ma il giovane Kiva conosce bene il mondo contemporaneo e lo ritrae sul suo taccuino da passeggio, di nascosto però, perché per la comunità Heredim anche dipingere è un comportamento disdicevole e contrario alle scritture.
Superare l’everest delle prime cinque puntate è un impresa titanica: tutto è lentissimo e se tutti i suoi personaggi fossero rinchiusi nel catalogo della Pantone, sarebbero stipati, stretti stretti nella cartella dei grigi; la colonna sonora è pressoché inesistente e il colore è quasi completamente desaturato, come se il prezzo da pagare per la rappresentazione di un mondo che allontana le gioie e i piaceri, sia la negazione a qualsiasi concessione estetica dell’immagine trasmessa dal mezzo televisivo stesso (che per l’appunto non esiste). E ancora, è come se anche lo spettatore dovesse espiare un peccato antico del quale si è ormai perso il ricordo.
Il progetto degli sceneggiatori Ori Leon e Yehonatan Indursky è ambizioso e, come ogni soap che si rispetti, anche Shtisel non tradisce il suo compito e sfrutta il meccanismo del racconto in parallelo di tutti i membri della famiglia.
Sotto il grande cappello nero del padre rabbino Reb Shulem si radunano l’infelice figlia Gitty costretta, per sbarcare il lunario, a svolgere un’attività di cambio valuta in nero; Lipa, il marito di Gitty, stanco della stretta gabbia dell’ortodossia, che in un momento di crisi si taglia addirittura i peyot, i classici boccoli che penzolano dalle tempie degli uomini, suscitando il disappunto di tutta la comunità; la nipote adolescente Rushama, figlia di Gitty e Lipa, che a fatica si occupa di tutte le faccende domestiche e che come unica via di fuga si innamora e sposa un giovanissimo studente rinchiuso giorno e notte in una yeshivah con il naso sempre immerso nella Torah; l’anziana madre Rebetzen, che scopre l’ipnosi della televisione e delle soap opera americane soltanto quando viene portata a vivere i suoi ultimi anni in una casa di riposo.
Ma il vero protagonista delle due stagioni è Kiva, figlio del rabbino e insegnante egli stesso con l’ambizione della pittura e la voglia di innamorarsi e di sposare la donna che egli ha scelto per se stesso senza l’intromissione del sensale.
Questa donna è la vedova Elisheva, osteggiata dalla famiglia di Kiva proprio perché vedova e madre, e la possibilità che il sensale la prenda in considerazione per proporla a Kiva sono bassissime. Lo stesso rabbino Shulem la definisce “una cotoletta riscaldata”.
Le due stagioni non si rivolgono di certo al pubblico ortodosso rappresentato nella serie, ma piuttosto al vastissimo pubblico laico che viene lentamente intrappolato da una sottilissima ragnatele di linee emotive e costretto a un continuo equilibrismo fra posizioni fortemente critiche verso il mondo degli estremismi e delle ortodossie in generale. e l’inevitabile tenero innamoramento per tutti i suoi personaggi che vengono ritratti senza giudizio e delicatezza dagli autori.
Gli stessi Ebrei residenti in Israele, pur criticando fortemente la posizione degli ultraortodossi Cheredim perché esentati dal servizio militare per il loro rivendicato pacifismo e per i continui finanziamenti dello stato a chi per tutta la vita si rinchiude in una scuola talmudica e studia la Torah, si confessano letteralmente “stregati dalla serie” e se nessuno avrebbe mai scommesso su questo cavallo, in conseguenza del suo successo planetario, il co-creatore della serie, Yehonatan Indursky, ha confermato che gli scrittori stanno già lavorando sodo per creare la terza stagione………
Be’zrat HaShem – a Dio piacendo!