The Kominsky Method: seconda stagione da amare e basta di Diego Castelli
Chuck Lorre fa ancora centro con il suo show più personale e adorabile
Qualche anno fa, non chiedetemi quando ché è tutta nebbia, mi trovai a polemizzare su internet con un giornalista che, nello stilare una sua personale classifica delle migliori serie degli ultimi anni, non considerò neanche una comedy. Di fronte alle mie rimostranze disse che lui aveva fatto una classifica di “vere serie tv”, cosa che evidentemente per lui le sitcom non erano.
Tuttora mi chiedo chi diavolo gli commissionò l’articolo senza prima assicurarsi che avesse il pollice opponile.
Nel guardare la seconda stagione di The Kominsky Method, otto comodi e corti episodi che si bevono in un pomeriggio con la copertina sulle gambe, mi è venuto da ripensare a quell’articolo e a come sarebbe possibile non solo non considerare Kominsky una vera serie tv, ma più in generale una delle cose migliori attualmente disponibili sul piccolo schermo.
E per provare a inquadrare la sua qualità, che a mio giudizio è quasi emblematica di quello che una buona comedy può fare alla mente dei suoi spettatori, trovo giusto partire dalla fine: senza fare troppi spoiler (per ora), la seconda stagione di The Kominsky Method termina senza grandi sussulti, senza cliffhanger insistiti, semplicemente con i due storici protagonisti che, as usual, parlottano con un bicchiere in mano e quel che resta della loro vita davanti.
Abituati come siamo alle serie gigantesche e mega-costose, in cui il finale di stagione è quasi sempre occasione per spingere un’ultima volta sull’acceleratore lasciando gli spettatori con la bocca spalancata e una voglia feroce di nuovi episodi, questo approccio scelto da Chuck Lorre può lasciare lì per lì spiazzati, come se alla stagione mancasse un pezzo.
Bastano pochi minuti, però, per rendersi conto che gli otto episodi appena guardati non hanno bisogno di un ultimo botto, perché quello che dovevano dare l’hanno già dato durante il viaggio, pacatamente e sobriamente, ma senza ombra di dubbio.
Ora qualche spoiler lo facciamo.
Nel corso degli otto episodi, le storie dei vari personaggi continuano a svilupparsi. Ci sono più direttrici seguite a varia intensità per tutta la stagione: Sandy alle prese con il nuovo fidanzato della figlia, che ha più o meno la sua età e i suoi stessi acciacchi (è interpretato da Paul Reiser, mitico protagonista di Mad About You); lo stesso Sandy impegnato a riconquistare Lisa; Norman che esce improvvisamente dalla depressione per la morte della moglie, grazie all’incontro con una vecchia fiamma; Sandy che scopre di avere un tumore ai polmoni, per fortuna allo stadio iniziale; e per finire Norman alle prese con la figlia Phoebe, che forse questa volta è davvero riuscita a uscire dal tunnel della dipendenza.
Queste e altre storie vengono condite dai soliti dialoghi rapidi e frizzanti di Chuck Lorre, da una vena sarcastica e un po’ cinica (ma con ampi sprazzi di tenerezza), e da un plotone di guest star decisamente pregevole: oltre al già citato Reiser troviamo anche Bob Odenkirk (medico di Sandy che gli diagnostica il tumore al polmone, lui che in Breaking Bad di tumori occorsi a non fumatori ne ha già visti), Kathleen Turner (che con Michael Douglas ha interpretato diversi film di successo e qui giustamente interpreta la ex moglie), Allison Janney (nei panni di una se stessa particolarmente concreta e spiccia nel raccontare agli studenti di Sandy il mestiere della recitazione), Haley Joel Osment (il bambino de Il Sesto Senso, che qui impersona il figlio di Phoebe, in fuga da Scientology).
Ciliegina sulla torta, le autocitazioni di Lorre, che a un certo punto fa recitare a due allievi di Sandy una scena da Due Uomini e Mezzo.
Tutte queste storie sono interessanti e curiose, e certamente fanno venire voglia di vedere “cosa succederà”. Ma il cuore di The Kominsky Method non è mai nel “cosa” succede, quanto nel “come” i protagonisti reagiscono a quegli eventi.
Se la sitcom tradizionale americana, quella con le risate in sottofondo in cui Chuck Lorre è maestro, è capace di parlare anche di cose serie, ma mantiene sempre una certa patina di irrealtà data prima di tutto dalle sue modalità di messa in scena, con The Kominsky Method Lorre ha trovato una specie di nuova versione di se stesso, una seconda giovinezza artistica, e un modo diverso di intendere la sua stessa idea di comedy.
Quasi paradossale, visto che si tratta di una sitcom in qualche modo “geriatrica”, ma in fondo nemmeno così strano: quando si mettono in scena storie di personaggi anziani, è inevitabile introdurre tutta una serie di temi, fra cui quello dei bilanci di vita. Tutti facciamo bilanci, a qualunque età: bilanci dell’anno scolastico appena concluso, bilanci su una storia d’amore finita o iniziata, bilanci sulla nostra vita lavorativa, sui figli, ecc ecc. E naturalmente i simboli più semplici del tema dei bilanci sono i personaggi in età avanzata, che tipicamente affrontano il loro (lungo) passato e il loro (potenzialmente breve) futuro con sentimenti contrastanti, con malinconia, con rabbia, con rassegnazione, con soddisfazione.
I due protagonisti di The Komisnky Method, interpretati come al solito splendidamente da Michael Douglas e Alan Arkin, hanno la capacità di essere contemporaneamente ideali e realistici. Sono anzianotti in buona forma, con ottime carriere e un’invidiabile capacità, propria della comedy, di far fronte con una risata alle avversità della vita. Allo stesso tempo, e questo li distanzia dalle sitcom più classiche, sono immersi in una realtà molto più concreta fatta di acciacchi fisici, dolori psicologici, antiche ferite che hanno bisogno di lavoro e fatica per essere rimarginate.
Arrivato lui stesso all’età dei primi bilanci seri dopo una carriera ormai lunga e di successo (ha compiuto da poco 67 anni), Chuck Lorre è riuscito a creare personaggi che probabilmente sono un’estensione molto personale dei suoi stessi dubbi e della sua stessa coscienza, ed è riuscito a dargli una spontaneità e una verità che sono la vera forza dello show: debuttata lo stesso giorno della sesta stagione di Bojack Horseman (pure lei una serie molto basata sui bilanci), The Kominsky Method offre una scrittura più semplice, comprensibile e meno densa della collega animata, ma si porta dietro la stessa strana, sorprendente dose di realtà: non perché ciò che accade sia effettivamente verosimile, ma perché percepiamo chiaramente che dietro la patina di dialoghi ritmati e situazioni buffe c’è qualcosa di vero, una sensazione, un sentimento, una realtà non sempre facile che viene affrontata come meglio si può, aggrappandosi alle cose importanti della vita con feroce tenacia, ma senza perdere il sorriso.
Quando la stagione finisce ci si sente sollevati e inteneriti, e si ha l’impressione di aver ricevuto degli strumenti quasi magici per affrontare con più tranquillità il lunedì in ufficio, il pranzo coi cugini antipatici, o anche qualcosa di peggio. Seguendo le avventure di Sandy e Norman abbiamo l’impressione che ci sia sempre spazio, malgrado le avversità, per trovare un lato buono o per lo meno comico delle cose, e soprattutto spazio per imparare qualcosa, anche a ottant’anni. Non so se questa può essere la misura di una “qualità” della serie, ma di certo è la misura del suo effetto su di noi, e non mi sembra poco. Anche senza finale col botto.