19 Giugno 2019 9 commenti

Euphoria: HBO azzecca anche le serie coi teenager di Diego Castelli

Una serie sugli adolescenti ma non per adolescenti, perché c’è sempre da imparare

Copertina, Pilot

Euphoria (6)

Se vuoi dar vita a un film o una serie tv che siano “impegnati” – intesa come la volontà di far riflettere su un tema socialmente, culturalmente o politicamente spinoso – l’obiettivo è tanto semplice in teoria quanto complicato nella pratica: usare tutti gli strumenti a tua disposizione (la scrittura, la regia, la fotografia, gli attori ecc) per costruire una “prospettiva”. Raccontare qualcosa che esiste, ma che spesso non viene visto o capito. Rappresentarlo, filtrato dai paletti dell’autorialità, così da permettere di conoscerlo anche a chi di quel mondo non fa parte, o magari perfino a chi ci è dentro, ma senza la capacità di guardarlo con occhi diversi.

Ecco, basta un solo episodio per rendersi conto che Euphoria – nuova serie teen di HBO creata da Sam Levinson, interpretata dalla cantante e attrice Zendaya, e tratta dall’omonima serie israeliana – centra perfettamente il bersaglio.
La protagonista è Rue, una ragazza “difficile” che, dopo aver passato la vita a combattere contro gli ostacoli posti dalla sua stessa mente (bipolare, depressa, “difettosa”) trova nella droga un costante senso di sollievo da un mondo che, senza aiuti chimici, le appare costantemente caotico, rumoroso, confuso. Abitante di un sobborgo come tanti, Rue è la chiave con cui lo spettatore entra a contatto con la vita degli adolescenti del luogo, scoprendone le regole, gli eccessi, le fragilità.

Euphoria (5)

Per stessa ammissione di Sam Levinson (e considerando il fatto che è prodotta da HBO), la serie non è diretta a un pubblico di giovani, bensì a un pubblico di adulti per i quali quei giovani sono un grande rebus.
Naturalmente non è il primo esempio di storia cine-televisiva in cui il mondo giovanile delle periferie viene dipinto con piglio crudo e realistico, anche se magari filtrato da una patina di commedia o di surreale (cioè, Trainspotting è del 1996, per dire). Ma Euphoria sembra in grado di fare un passo in più. La storia, raccontata in prima persona da Rue, rimane sempre in bilico fra dramma e commedia, perché la protagonista racconta le sue vicende con una specie di indolente, distaccata ironia. Ma questo non impedisce alla sceneggiatura di mettere le mani nel torbido per tirarlo fuori, alla luce del sole. Euphoria non si limita a dirci che i ragazzi bevono, si drogano o fanno sesso non protetto, in una specie di “mamma che tempi, signora mia”, in cui ci sarebbe ben poco di interessante. Il bello di Euphoria è che prova a dirci perché.

Euphoria (3)

A emergere dalla serie, fin dal pilot, è un mondo adolescenziale complicato e difficile, in cui esistono regole precise che non vengono mai spiegate a nessuno, ma che se non vengono rispettate possono trasformare in reietti e paria. Soprattutto, specie nell’era dei social, delle foto su internet e della comunicazione istantanea, è un mondo in cui ognuno si sente costantemente e immediatamente giudicato, dove le etichette volano rapidissime e incontrollabili, dove il sesso non è un atto volontario di piacere ma piuttosto moneta di scambio in transazioni riguardanti lo status sociale. Le donne sono solo “puritane” o “mignotte”, senza via di mezzo e senza che nessuna delle due sia una definizione positiva. Gli uomini, dal canto loro, devono continuamente dimostrare la loro forza e virilità, pena la perdita di qualunque rispetto.

Euphoria (1)

L’intento di Levinson è dunque chiaro: la costruzione di un immaginario che gli adulti non siano chiamati a giudicare, quanto piuttosto a vivere e comprendere, provando sulla propria pelle, pur nella rassicurante dimensione della fiction, la lunga serie di condizionamenti e pressioni che un adolescente di oggi è costretto a subire in certi contesti, finendo col compiere azioni autodistruttive o, comunque, razionalmente poco intelligenti, sulla base di una serie di “obblighi” di cui molti adulti non conoscono nemmeno l’esistenza.
Allo stesso tempo, però, Levinson non dimentica di accendere piccole luci di speranza: in mezzo ai giudizi feroci, alla droga, agli abusi sessuali perpetrati da adulti apparentemente tutti casa e famiglia, dai posti più inaspettati emergono brandelli di amicizia, di sincerità, connessioni vere che lottano strenuamente per trovare spazio in mezzo a quelle finte. Connessioni che, in assenza di genitori realmente in grado di capire, spesso rappresentano l’unica ancora di salvezza per i personaggi.

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Il pilot diretto da Augustine Frizzell, insomma, riesce già a veicolare un’enorme quantità di informazioni ma soprattutto di atmosfera, e lo fa anche grazie a un ottimo lavoro sulla messa in scena, con movimenti di macchina fluidi a seguire i cambi di stato dei protagonisti; con improvvisi colpi ad effetto utilissimi a entrare nella mente dei personaggi (come quanto Rue, strafatta, comincia a camminare su pareti e soffitti per darci l’idea di quanto sia confusa in quel momento); con improvvise botte di cruda realtà, come quanto un Eric Dane dolorosamente cattivo abusa di Jules con un misto di violenza e fascinoso viscidume che fa venire in brividi.
Naturalmente, menzione speciale per Zendaya, perfetta per il ruolo e abilissima nel restituire una Rue quasi sempre “opaca”, annebbiata dalla droga, apparentemente forte e sicura di sè, ma in realtà costretta a gestire una fragilità di fondo che rischia sempre di farla finire nel baratro.

In conclusione, un ottimo esordio, per una serie che sembra capace di stupire con la sua tecnica, e insegnare con le sue idee. Assolutamente da tenere d’occhio.
Perché seguire Euphoria: un racconto tosto e difficile, capace di insegnare molto ma non privo di una struttura solida e appassionante.
Perché mollare Euphoria: se un’ora di adolescenti che si drogano e rischiano la vita sconvolge troppo il vostro mondo fatto di unicorni e mulini bianchi.

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