Chernobyl – Una miniserie eccezionale di Diego Castelli
HBO e Sky coproducono 5 puntate sul famoso disastro nucleare, e c’è solo da applaudire
Non so come iniziarla se non così: da inizio 2019, Chernobyl è la cosa seriale migliore che abbiamo visto e che stiamo guardando. Punto e a capo.
In onda su HBO, co-prodotta dalla stessa HBO e Sky (da noi arriverà il 10 giugno), e creata da Craig Mazin (che è uno sceneggiatore soprattutto comico), Chernobyl non ha un titolo metaforico per parlare di intime relazioni matrimoniali. No, parla proprio di Chernobyl, la cittadina sovietica vicino alla quale, il 26 aprile 1986, il peggior incidente nucleare della storia scosse le coscienze del mondo intero.
La miniserie di cinque episodi racconta le ore del disastro e quelle immediatamente successive, in cui si intrecciano i tentativi delle autorità di contenere/insabbiare l’incidente, gli sforzi degli scienziati per limitare le perdite umane, il sacrificio di pompieri e operai che intervennero sul luogo dell’incidente e che, nei giorni successivi, sacrificarono la loro vita per scongiurare un disastro ancora più pesante. Senza contare, naturalmente, l’impatto medico ma anche culturale sulla popolazione circostante e sull’opinione pubblica internazionale.
La forza di Chernobyl sta soprattutto nel fatto che è un colossale pugno nello stomaco. Il fatto di conoscere gli eventi, anche solo nella forma del “so che sta per andare tutto male”, non toglie nemmeno un grammo alla tensione, ma anzi la potenzia, perché la vera suspense, come ci insegnava il buon Hitchcock, non deriva dalle sorprese, ma dall’attendere qualcosa di forte che sappiamo arriverà.
In questo senso, la sceneggiatura di Mazin è lucidissima nel costruire un insieme di personaggi per i quali il disastro è, almeno all’inizio, semplicemente troppo grosso e troppo spaventoso da contemplare. La potenza dirompente del primo episodio non sta tanto nel vedere la gente che muore per le radiazioni (anche se su questo torneremo) quanto nel costruire una paura e un orrore così scioccanti, da costringere buona parte dei protagonisti a negare l’evidenza per una pura forma di autoconservazione psicologica.
Nelle prime ore del disastro, burocrati e piccoli politici a capo della struttura distrutta passano lentamente dal non accettare la reale gravità del problema, definito più volte impossibile, a una negazione più che altro di facciata, con i superiori, nel tentativo di nascondere sotto il tappeto una polvere che però, nel caso specifico, il tappeto lo fonde.
Quello che Mazin costruisce è dunque un affresco di miseria umana che non ci scatena tanto rabbia, quanto piuttosto compassione: nel terrore dei personaggi non riconosciamo una colpa, quanto piuttosto un sentimento primitivo e terribile che sentiamo nostro, come se lo vivessimo con loro in quel momento. Ed è su questa base così angosciosa che, con gusto un po’ più hollywoodiano, Mazin inserisce la figura di pochi, inaspettati eroi, fra cui quello che possiamo considerare il protagonista della miniserie, Valery Legasov, interpretato dall’ex Mad Men e The Terror Jared Harris. Si tratta di scienziati o semplici operai che, pur conoscendo i rischi del semplice “stare lì”, si prendono in carico il compito di portare una scintilla di raziocinio e di scienza, che illumini il buio impaurito che fagocita quasi tutti gli altri personaggi.
Ma se questi sono i meriti della scrittura, è obbligatorio riconoscere quelli della messa in scena. Chernobyl è interamente diretta da Johan Renck, regista svedese con nel curriculum episodi di Vikings, Bates Motel e Breaking Bad, che fa un lavoro splendido lavorando sul ritmo e sulla suspense, ma anche sui simboli e sulla capacità di piazzarli sempre al posto giusto. La cenere radioattiva che vola indisturbata sui bambini ignari, che l’accolgono gioiosi come una strana neve; l’immagine dell’interno del reattore, rappresentato come una specie di bocca dell’inferno in cui sembra di scorgere lampi di cinema antico, quasi un film horror dei tempi del muto; i mucchi di vestiti contaminati, il rossore mortale sul volto dei soccorritori, gli uccelli morti caduti nei cortili delle scuole; il lavoro sugli attori, a cercare sempre una paura cieca trattenuta a stento dagli ultimi brandelli di dignità professionale.
Tutto, in Chernobyl, trasuda paura e sgomento, e rende ancora più preziose e decisive le poche scintille di razionalità che i protagonisti riescono coraggiosamente ad accendere. Scintille che, ironicamente, sono inserite in una fotografia grigia, slavata, deprimente, verrebbe da dire “sovietica”, che racconta allo stesso modo centrali nucleari, case e uffici, tutti accomunati da una pochezza e un vecchiume scrostato che rendono ancora più forte il contrasto con la forza primitiva del disastro nucleare.
Chiaramente Chernobyl si porta dietro anche ragionamenti sulla politica, sul bene comune, sulla pericolosità della corruzione e del nepotismo, che mettono persone sbagliate in luoghi troppo delicati. Ma al momento, più che trarre insegnamenti morali o critiche filosofiche, quello che preme sottolineare è la capacità della miniserie di lasciare lo spettatore completamente annichilito, cosa sempre più rara in un mondo cine-seriale così ricco di stimoli e distrazioni. Ecco, con Chernobyl non c’è modo di distrarsi: si rimane incollati allo schermo finché la puntata non è finita, e quando scorrono i titoli di coda si rimane muti, gli occhi sbarrati, mentre ci si guarda intorno riscoprendo la bellezza di stare dentro case sicure e calde in cui non ci sono radiazioni mortali. Fosse anche solo per questo, per la sua capacità di ricordarci in maniera così violenta quanto siamo fortunati (e quando dovremmo impegnarci per rimanerlo), Chernobyl si becca il primo posto nella nostra classifica annuale. Magari lo perderà nei prossimi mesi, a mente più fredda, ma al momento glielo diamo di slancio, provatissimi.
Perché seguire Chernobyl: colpisce come un mattone e ti si pianta nel cervello per non uscirne più.
Perché mollare Chernobyl: è una serie per stomaci e cuori forti.