3 Maggio 2019 3 commenti

Bonding – Netflix e il sadomaso pop di Marco Villa

Trasgressione, però tenera

Copertina, Pilot

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– Stasera ci sei per una birra?
– Eh no, stasera non riesco, lavoro
– Ah ma sai che non so cosa fai?
– Ma niente di che, mi vesto di latex e umilio uomini di mezza età con evidenti problemi

Stacco, benvenuti dentro Bonding, nuova comedy di Netflix disponibile dal 24 aprile. Creata da Rightor Doyle, già attore in Nerve, Bonding è ambientata nel mondo della dominazione. Ora, non essendo sorprendentemente inserito in questo settore, può essere che commetta qualche strafalcione. Fate i bravi e capitemi, senza venire a cercarmi armati di frustino ed elettrodi. Bonding ha due protagonisti: Tiffany e Pete. Amici dai tempi del liceo, si ritrovano dopo anni a New York. Lei studia psicologia, lui vorrebbe diventare uno stand-up comedian, come se fosse uno dei tanti abitanti di NOLO a Milano. Bonding inizia quando Tiffany tira in mezzo Pete come assistente nella sua attività notturna: timido e impacciato, Pete all’inizio fa fatica a trovare i propri spazi, ma finisce per abituarsi alla situazione e a prenderci pure gusto.

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È evidente che Bonding non sia una comedy convenzionale: è talmente laterale il punto di partenza da rendere superfluo qualsiasi tentativo di riduzione a una verosimiglianza. Per dire, oltre all’attività notturna in una sorta di speakeasy del sadomaso, Tiffany ha pure un cliente che vive in casa sua, le fa da maggiordomo e paga per essere umiliato quando sbaglia a farle il caffè. Tutto abbastanza surreale, presentato peraltro in modo molto poco ortodosso: non c’è nessuna introduzione, si arriva con entrambi i piedi in questo mondo rosa shocking in cui tutto sembra più o meno al contrario. Le puntate durano pochissimo (meno di 20 minuti) e così si elimina tutto quello che non serve, riducendo la sceneggiatura all’osso.

A un primo impatto, potrebbe sembrare una scelta eccessiva, in realtà va esattamente in quella direzione che auspichiamo da anni: niente spiegoni, fate lavorare il nostro cervello. Ogni scelta radicale ha sempre un piccolo contrappasso e Bonding non fa eccezione: la mancanza di ciccia intorno agli eventi cardine, infatti, finisce per privare di profondità i personaggi, che fisiologicamente hanno bisogno di tempo per crescere e instaurare una relazione con lo spettatore. Anche in questo senso, invece, Bonding viaggia senza freni, ma il risultato non è del tutto riuscito: alla terza puntata (che in realtà è dopo mezz’ora circa di visione), assistiamo a un momento intimo tra i due personaggi, che si confessano e parlano delle proprie debolezze. Zoe Levin e Brendan Scannell, che interpretano i due personaggi principali, sono bravissimi, ma noi restiamo freddi, distaccati: non siamo ancora riusciti a sentirci vicini a loro e a capire il loro presente, figurarsi a empatizzare scoprendo cose del loro passato.

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È però una scelta, a suo modo coraggiosa e portata avanti con estrema coerenza. La durata perfetta delle puntate fa sì che accettare il gioco non sia comunque un investimento eccessivo di tempo e di questo siamo parecchio grati.

Perché guardare Bonding: perché riduce tutto all’osso e ha due ottimi protagonisti

Perché mollare Bonding: perché si fatica ad affezionarsi ai personaggi

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