Warrior – L’anima di Bruce Lee nella nuova serie del creatore di Banshee di Diego Castelli
Un buon mix di genere per una serie che promette parecchio
L’ultima volta che abbiamo parlato di una serie “così” fu in occasione di Into The Badlands. Uno show, giusto per capirci, che unisse un’anima drama a una profonda passione per l’action di stampo orientale, fatto di combattimenti altamente coreografici costruiti appositamente per stuzzicare il ragazzino che ancora alberga in ognuno di noi, quello che quando guardava Van Damme alla tv a fine anni Ottanta pensava che fosse uno davvero forte e non un ex ballerino che semplicemente sapeva fare la spaccata (con tutto il rispetto per Jean Claude naturalmente).
In queste settimane Into The Badlands si avvia a conclusione, dopo aver dato vita a un mondo affascinante ma forse non così preciso e ficcante come avrebbe dovuto. È rimasta una serie interessante ma un po’ di nicchia, incapace di fare il salto di qualità (e io francamente gli ultimi episodi non li vedrò, la notizia della cancellazione mi ha spento tutto il friccicore).
Ma come si dice, morto un papa se ne fa un altro, e a quanto pare se ne fa un altro anche quando non muore ma va solo in pensione. Quindi eccoci qui a parlare di Warrior, serie di Cinemax creata da uno dei padri di Banshee, Jonathan Tropper, che punta a raccontare la vita e le avventure della comunità cinese nella San Francisco di fine Ottocento, al tempo delle cosiddette “tong wars”, aspri scontri fra bande rivali registrate in varie Chinatown in giro per gli Stati Uniti.
Protagonista è Ah Sahm, il “guerriero” del titolo, un campione di arti marziali che arriva da immigrato a San Francisco in cerca della sorella, e rimane invischiato nelle guerre fra clan.
Come si vede, il setting è molto più realistico rispetto a Into The Badlands, fa riferimento a un particolare periodo storico e consente alla produzione di lavorare su un’atmosfera molto meno inventata e più concreta, ma soprattutto più affascinante, perché capace, nonostante si parli di 150 anni fa, di sollevare temi ancora caldissimi per gli States e non solo, come quelli dell’immigrazione e delle minoranze (i cartelli con cui gli americani accolgono i cinesi, accusandoli di rubargli il lavoro, non suonano poi così antichi…).
Ma in tutto questo, al di là di un pilot piuttosto ricco (proprio in termini di budget) e di un’atmosfera efficace, a contare davvero è il fatto che Warrior nasce addirittura da un’idea di Bruce Lee, che aveva immaginato una serie dal titolo “The Warrior”, ambientata nel vecchio West. Quell’idea poi finì in Kung Fu, con David Carradine, anche se Lee non ebbe alcuna parte nella realizzazione dello show, dove non veniva nemmeno citato. A decenni di distanza, e con le opportune modifiche, la stessa idea è poi diventata la Warrior di Cinemax, dove Shannon Lee, la figlia di Bruce, lavora come produttrice esecutiva.
E che Warrior sia una serie ispirata al mondo e al lavoro di Bruce Lee è evidente. Al netto della struttura americana e di altri dettagli tipici di Cinemax (non ultimo un certo gusto per le scene di nudo esplicito), Warrior è costantemente impregnata dell’estetica tipica delle arti marziali di Bruce Lee, a partire da un protagonista che lo ricorda moltissimo nelle movenze e perfino nel modo di prepararsi alla battaglia.
A conti fatti, Warrior è una buona serie, almeno per ora, proprio perché sembra in grado di unire bene i due mondi: quando la trama si sviluppa e si infittisce, sembra di stare in uno spinoff di Peaky Blinders, con la stessa anima storica raccontata con lo stesso gusto per l’intrigo e la lotta fra criminali di ogni sorta, sotto l’occhio non-troppo-onesto delle autorità. E quando ci si mena, invece, esplode una grande attenzione per le coreografie, per i rapporti fra i corpi sulla scena, alla costante ricerca di un mix fra eleganza, potenza e leggerezza. C’è naturalmente anche un po’ di Banshee, nell’impostazione fumettosa che cerca di presentare personaggi immediatamente riconoscibili per questo o quel tratto, come se fossero pennellate da stamparsi immediatamente nel cervello. L’impressione è che Banshee fosse un po’ più cruda nella rappresentazione della violenza, ma va detto che siamo solo all’inizio.
Come era logico che fosse, ci sono meno concessioni all’irrealismo spinto di Into the Badlands (niente gente che vola, diciamo così), ma resta intatta quell’epica guerriera in cui l’abilità in combattimento non è solo banale strumento di guerra, ma valore a tutto tondo di combattenti che attraverso quella abilità esprimono metaforicamente la loro intelligenza, determinazione e disponibilità al sacrificio (da declinare poi al Bene o al Male, naturalmente).
Ci sono ancora molti modi in cui Warrior potrebbe peggiorare, ma al momento giustifica speranze di un certo peso. Fa tante cose, e le fa tutte bene.
Perché seguire Warrior: uno show di arti marziali che unisce con eleganza l’anima coreografica di Bruce Lee al period drama e al racconto criminale.
Perché mollare Warrior: se la gente che si mena facendo le mossette vi è sempre stata sulle balle.