True Detective 3 season finale – Bello perché non è giallo di Diego Castelli
Un finale elegante e coerente per una stagione che, esattamente come la prima, non può essere letta solo come un poliziesco
Mi guardo intorno, a non troppe ore dalla fine della terza stagione di True Detective, e vedo che molti stanno giudicando questi otto episodi sulla base della bontà del caso poliziesco, che alla fine, non essendo così particolare, lascerebbe l’amaro in bocca.
Mi chiedo cosa possa spingere a giudicare una stagione come questa, ma in realtà tutta la serie, solo sulla base dei suoi meccanismi gialli. Per caso la prima stagione ce la ricordiamo per quello? Ma va, ce la ricordiamo per l’atmosfera, per i discorsi filosofici di Matthew MacConaughey, per la regia voluttuosa di Cary Fukunaga (e per Alexandra Daddario, coff coff). A momenti neanche mi ricordo come finiva. Mentre la seconda stagione è un grandissimo vuoto proprio perché, scioccamente, Nic Pizzolatto aveva inspessito abnormemente una trama poliziesca di cui, a conti fatti, interessava a pochi.
Ma se una serie che si chiama “true detective” non deve essere giudicata sul lavoro dei detective, che stiamo qui a fare? Beh, ma il bello è proprio questo. Fin dalla prima stagione, True Detective usa la scusa del poliziesco, così esplicitamente esibito nel titolo, per parlarci di psicologia, filosofia, di uomini tormentati dal loro stesso stare al mondo.
È questa la prospettiva da cui leggere anche la terza stagione che, dal punto di vista del giallo, termina in modo quasi scherzoso. Per molti episodi somma indizi che fanno pensare a una cospirazione sempre più grande, in cui la scomparsa di due bambini è solo un piccolo pezzo del puzzle. L’apparizione, in foto, di Rust e Marty, solletica le papille di tutti facendo sognare una comparsata di Matthew MacConaughey e Woody Harrelson, ma è solo la ciliegina sulla buffa torta preparata da Pizzolatto, in cui non c’è alcuna rete di pedofili o organizzazione criminale da sgominare, ma solo l’errore di una madre distrutta dal dolore.
Julie, la bambina rapita ma teoricamente ancora viva che i nostri cercavano da decenni, era stata “semplicemente” noleggiata e poi venduta dalla madre alla figlia di Hoyt, che aveva perso marito e figlia in un incidente e si era invaghita di una bambina che le ricordava la sua. Il mistero misterioso, in cui le parole sibilline di Hoyt ancora facevano pensare a un uomo solo (Wayne) contro chissà quanti cattivi, era una turpe ma piccola storia fra due famiglie, in cui la poca morte che c’era era un incidente (il fratello di Julie), e il resto era dolore e malattia.
In parte la capisco, la frustrazione di chi vede nella risoluzione della vicenda un trucco troppo semplice, la banalizzazione di un’indagine durata tre decenni, che alla fine si risolve parlando con un vecchio senza occhio che era sempre stato lì, e visitando una stanza rosa che, pure lei, era sempre stata lì, a pochi metri dagli investigatori.
Ancora una volta, però, True Detective non è un giallo classico, e non va letta in quel modo. Perché il vero twist, nel finale di stagione di True Detective 3, non sta nella scoperta che Julie è viva e ha una figlia di nome Lucy (è bastato sentire il nome della bambina per capire tutto), sta nel fatto che Wayne dimentica la verità non appena la scopre.
Eccolo qui, il vero valore di True Detective, la sua vera coerenza. In parte è una ripetizione di certi temi della prima stagione, a cui Pizzolatto è tornato con forza dopo i passi falsi della seconda, ma in parte è anche una prosecuzione e un approfondimento di quei discorsi, che all’epoca si concretizzavano soprattutto nelle parole di Rust, mentre ora vengono fisicamente vissute dai personaggi.
Tutta la terza stagione di True Detective è costruita sul concetto di tempo, e su come esso possa diventare una gabbia impossibile da spezzare. I tre piani temporali su cui la storia viene raccontata dicono naturalmente molto della psicologia di Wayne, vero protagonista di questo ciclo, ma tanta parte di verità è nascosta anche negli anni che non vengono raccontati, anni in cui c’è un sostanziale immobilismo.
Quello che questa stagione di True Detective racconta è l’incapacità di un uomo e delle persone che lo circondano di uscire da un’ossessione, di “andare avanti” con le proprie vite a fronte di un trauma che, in buona parte, si sono auto-costruiti. Perché la sensazione che abbiamo, quando nell’ultima inquadratura vediamo Wayne perso nella boscaglia del Vietnam (e della sua mente), è che la croce che ha portato addosso per anni sia una sua scelta: non c’era un vero motivo per prendersi così tanto a cuore quel caso, e il destino ha pure voluto che non ci fossero altri torti da riparare, perché la piccola Julie è cresciuta ed è felice. L’angoscia che Wayne si è portato dentro era solo sua, una tratto della sua identità, più che il frutto di condizioni avverse.
Tutto il finale è disseminato di piccole idee visive o dialogiche che insistono sugli stessi temi. Vedere per esempio quel bel movimento di macchina che inquadra i due protagonisti in auto, e che senza mai staccare passa fra le loro varie versioni (Ottanta, Novanta e presente), come a ricordarci che non si sono mai mossi da lì, che sono rimasti in macchina a investigare per tutto quel tempo, un cerchio piatto, come prima stagione insegna. Oppure il momento in cui Wayne, durante il racconto di Watts, dice “è sempre troppo tardi”, a sottolineare il loro essere costantemente fuori dal tempo presente: per quanto si impegni, quello di Wayne è sempre un inseguire, che siano due bambini, un potenziale assassino, o semplicemente dei ricordi.
La grande beffa, che è il twist migliore della stagione, arriva come detto vicino alla fine, quando la mente danneggiata di Wayne (un Mahershala Ali sempre in parte, sempre a metà fra depressione e rincoglionimento) gli gioca un doppio tiro: prima, con la classica allucinazione della ex moglie, gli rivela che Julie è viva e vegeta; poi, però, lo tradisce a un passo dalla meta, quando l’ennesimo blackout impedisce a Wayne di riconoscere chi ha davanti, cioè la ragazza che cerca da trent’anni. La scena è insieme tenera, dolorosa e surreale, perché ci mostra la fragilità di un uomo sconfitto dal tempo e dalle sue ossessioni, che non riesce a ottenere quella chiusura di cui aveva parlato esplicitamente con Roland.
La vera domanda che resta, in una stagione che più che un giallo è un drama psicologico sulla condizione umana e sull’incapacità che spesso mostriamo di afferrare la felicità anche quando la riconosciamo (come Wayne fa nel locale con la moglie, dichiarando la volontà di dedicarsi all’amore e alla famiglia, salvo poi non dimenticare mai il lavoro), è dunque questa: se la mente di Wayne non l’avesse tradito, se gli avesse permesso di incontrare Julie, il poverino avrebbe ottenuto la pace?
Detta altrimenti: possiamo sperare che la vita fuori di noi ci permetta davvero di trovare la serenità, oppure ogni sforzo sarà vano, finché quel moto non arriverà da dentro? Non lo sapremo mai. Per lo meno non da Wayne, che ha speso troppo tempo a rincorrere ricordi e fantasmi, e ora si ritrova dov’era al principio: circondato da famiglia e amici, ma comunque da solo, in una foresta buia.