20 Febbraio 2019 3 commenti

Proven Innocent – Errori giudiziari e un 25% di cose interessanti di Marco Villa

In apparenza Proven Innocent è la solita serie con un caso a puntata (e pure dei personaggi poco forti), ma forse ha qualcosa di inaspettato. Forse eh.

Copertina, Pilot

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Uh, che difficoltà questo Proven Innocent! Non perché sia complesso o particolarmente arduo da seguire – tutt’altro – ma perché per al 75% è una serie da prendere e buttare via, ma il restante 25% potrebbe essere qualcosa di parecchio interessante.

Proven Innocent è in onda dal 15 febbraio negli Stati Uniti e dal 19 febbraio anche in Italia su Fox Crime. Il titolo è un ribaltamento del classico innocente fino a prova contraria e insiste sul fatto che l’innocenza vada provata perché è questo che fanno i protagonisti, un gruppo di avvocati che si dedica a casi in cui c’è il forte sospetto che i condannati siano stati in realtà incastrati. Alla guida del team c’è Madeline Scott (Rachelle Lefèvre, Twilight e Under The Dome), giovane avvocatessa che ha vissuto sulla sua pelle un errore giudiziario, passando i suoi bei dieci anni in carcere dopo essere stata condannata insieme al fratello per l’omicidio della sua migliore amica. Innocente, studia in carcere, coinvolge un avvocato che diventerà poi suo socio e riesce a uscire di prigione. Da lì inizia la sua crociata, che finisce per incrociare la strada di Gore Bellows (sua maestà Kelsey Grammer), il procuratore che ai tempi l’aveva fatta condannare e che sembra abbia una gestione piuttosto allegra dei metodi di investigazione.

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Fin qui è il classico scenario da serie procedurale, con un caso a puntata e una tenue storia orizzontale a fare da collante e ad aumentare la tensione drammatica nei confronti della protagonista. Se ci aggiungete una protagonista pochissimo credibile nel ruolo per un incrocio di attitudine e immagine, una certa faciloneria nel racconto delle indagini e una volontà di essere modernissimi (che porta a sostituire la voce narrante con un podcast creato dagli stessi avvocati) che suona abbastanza ridicola, la serie sarebbe già condannata. Però poi c’è quel 25%. E quel 25% ha innanzitutto il nome di Kelsey Grammer, che interpreta un personaggio non lontano dalla spietatezza di quando era il diabolico sindaco di Chicago in Boss. Grammer non dà l’interpretazione della vita, ma ha una quantità di carisma che è sufficiente anche quando fa le cose con la mano sinistra.

Il bello del suo personaggio è che non si tratta di un cattivo senza sfaccettature, ma di un cattivo che ci crede: lui è davvero convinto della colpevolezza di chi manda in galera e quindi a volte aggira la legge per forzare l’ordine delle cose. Che è sbagliato, ma che è esattamente quello che hanno fatto centinaia di investigatori buoni nella storia del genere crime. Questa convinzione di fondo alimenta anche il secondo elemento di interesse di Proven Innocent: nel primo episodio, pur tra mille mani avanti e decine di migliaia di dubbi, si lascia intuire che forse il procuratore non si era sbagliato. Che forse la roscia protagonista e (soprattutto) il problematico fratello in carcere ci fossero finiti per un buon motivo.

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E per quanto non si tratti di innovazioni da sottolineare con dieci punti esclamativi, è comunque qualcosa rispetto allo standard dei procedurali. È questo il 25% di interesse che potrebbe stimolare alla visione di Proven Innocent. Dipende tutto dal fatto che conti di più il bicchiere per tre quarti pieno o per un quarto vuoto.

Ah, dappertutto viene lanciato come “il legal ispirato ad Amanda Knox”, ma dal primo episodio di ‘sta cosa proprio non c’è traccia.

Perché guardare Proven Innocent: perché prova a essere un minimo più studiato del procedurale classico

Perché mollare Proven Innocent: perché il buono che ha è diluito in grandi quantità di disinteresse

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