Escape at Dannemora – Le serie d’autore con la a maiuscola di Marco Villa
Benicio Del Toro, Paul Dano e una Patricia Arquette da Emmy sono i protagonisti del drama carcerario Escape at Dannemora, ispirato a una storia vera
Ci sono le serie come Homecoming che prendono un film lungo e lo frazionano in tante puntate brevi e ci sono le serie come Escape at Dannemora, che vengono invece concepite come un film lunghissimo, portato avanti a botte di puntate di un’ora. Non è il solito discorso generale per cui “le serie sono come i film”, ma un discorso più specifico, che riguarda il modo in cui questa serie di Showtime è concepita e scritta.
In onda dal 18 novembre negli USA e dal 4 dicembre in Italia su Sky Atlantic, Escape at Dannemora è una serie tv all star: sono stelle gli interpreti, guidati dal terzetto Benicio Del Toro, Patricia Arquette, Paul Dano; è una stella Ben Stiller che ne firma la regia; sono stelle i nomi dei creatori Michael Tolkin e soprattutto Brett Johnson (Mad Men e Ray Donovan per lui).
Già dal titolo si parla di una fuga e la fuga in questione è quella realmente avvenuta nel 2015 da un penitenziario dello stato di New York: siamo al confine con il Canada, in una di quelle zone rurali fuori dal mondo che occupano buona parte del territorio statunitense. Nel penitenziario lavora Tilly (Patricia Arquette), una donna cinquantenne che guida il reparto di sartoria in cui i detenuti producono abiti come forma di rieducazione al lavoro. Peccato che Tilly occupi le giornate anche in altro modo, ovvero facendo sesso in modo abbastanza regolare con Sweat (Paul Dano) in uno sgabuzzino. La sartoria è frequentata anche da Richard Matt (Benicio Del Toro), che è un po’ il boss della prigione, quello che tiene rapporti privilegiati con i secondini e riesce a ottenere tutto ciò che vuole. Questo è il triangolo che domina gran parte della narrazione, ma c’è poi un secondo piano temporale in cui Tilly è interrogata da una funzionaria dello stato per capire il suo coinvolgimento nella fuga di due detenuti. E non è difficile capire di quali detenuti si tratti. Escape at Dannemora è quindi il racconto di come la routine quotidiana della prigione venga cambiata per sempre dalla possibilità della fuga e di come questa fuga abbia luogo.
La qualità di Escape at Dannemora è altissima. Parto dagli interpreti, perché Patricia Arquette è enorme nel suo rendere una donna allo stesso tempo frustrata e autoritaria, che trova soddisfazione solo nel controllo delle persone che la circondano, dai detenuti al marito, che come lei lavora in prigione. Sciatta all’inverosimile, la sua Tilly è l’immagine vivente di quell’America profonda di cui si parla senza sosta dal giorno in cui Trump ha vinto le elezioni. Un personaggio crudele, con tratti di sadismo, convinta inconsciamente di essere la vera mamma americana, la vera spina dorsale del paese. Un personaggio che vive di estremi, ma che non può essere estremizzato, pena il rischio di trasformarlo in macchietta: Arquette è pazzesca nel trovare il giusto punto di equilibrio, lavorando sul proprio corpo e sulle proprie intenzioni in modo impressionante.
Di stile diametralmente opposta è l’interpretazione di Benicio Del Toro, che attraversa la serie con una sorta di maschera mono-espressiva. Non è una critica, ma un complimento: il suo personaggio cambia atteggiamenti e sentimenti senza mai lasciarlo trasparire in modo chiaro. Se cercate una definizione visiva del termine “impenetrabile”, la troverete nel suo volto. Tra questi due poli galleggia poi Sweat, il personaggio di Paul Dano: più giovane di entrambi di un paio di decenni, è l’unico personaggio in movimento all’interno di un ambiente statico, immobile. Non è un caso che sia lui a turbare lo status quo, varcando la linea che dovrebbe separarlo dalla donna incaricata di controllarlo.
Passando agli aspetti narrativi, a livello di scrittura Escape at Dannemora si prende i suoi tempi senza badare troppo ai classici meccanismi narrativi seriali. Nel primo episodio, per dire, non ci sono cliffhanger clamorosi, né quelle tipiche rivelazioni da mascella a terra che dovrebbero costringere lo spettatore a continuare la visione. Da qui si arriva a quanto detto in apertura, ovvero alla sensazione che la serie sia stata concepita come un lungo film, in cui i finali di puntata non vengono valorizzati in modo particolare. A essere molto valorizzata è invece la regia: Ben Stiller marca da subito una chiara differenza tra scene ambientate in esterna e in prigione: le prime sono ariose e dominate da riprese aeree, per dare conto degli spazi infiniti della provincia americana. Le seconde sono invece per forza di cose strette, caratterizzate da sbarre e angoli a 90 gradi, quegli stessi angoli che il personaggio di Benicio Del Toro definisce “innaturali” in uno dei dialoghi più significativi della prima puntata.
Escape at Dannemora è quella che qualche anno fa si sarebbe definita serie tv d’autore, che si prende i rischi di una narrazione dilatata per puntare tutto sulla qualità. Arrivata a fari spenti e senza troppi proclami, Escape at Dannemora può diventare una delle rivelazioni di questo fine anno.
Perché guardare Escape at Dannemora: per la qualità di interpreti, scrittura e regia
Perché mollare Escape at Dannemora: perché richiede pazienza e più attenzione della media