Kidding season finale – Una prima stagione enorme di Diego Castelli
Kidding era partita bene, ed è finita pure meglio. Applausi per tutti!
Il gioco delle aspettative, quello che prevede serie mai sentite che si rivelano fichissime e serie super-attese che deludono amaramente, lascia sempre sul campo qualche morto e ferito. Quest’anno non fa eccezione, se pensiamo a cose come Maniac o Sharp Objects. Non “brutte”, ma considerando quanto le avevamo attese e quanto poco ora ce le ricordiamo, be’, avete capito il problema.
A ben pensarci, le maggiori rarità sono le serie che aspetti con trepidazione, e che poi non solo rispettano le aspettative, ma rilanciano pure.
Ed è quindi con tanta gioia che oggi facciamo un punto finale sulla prima stagione di una di quelle rarità: Kidding.
Stiamo parlando di quella che, probabilmente, è la migliore novità dell’anno. Per profondità della scrittura, per ricchezza di temi, per gusto della messa in scena e per abilità dei protagonisti.
Del pilot avevamo già parlato, mettendo in luce soprattutto la grande forma di Jim Carrey, e le potenzialità di una serie attraversata da una tensione costante, che sembrava pronta a esplodere in direzione imprevedibili.
È esattamente quello che è successo, seppure all’interno di un linea che era già esplicitata nel primo episodio. Abbiamo assistito alla progressiva discesa agli inferi di Jeff, sempre meno capace di gestire la sua vita da intrattenitore pacioso e simpatico, e sempre più bisognoso di una qualche forma di sfogo, di cambiamento radicale, che gli permettesse di trovare sollievo dal dolore per la morte del figlio e per la disillusione (verso la vita, il lavoro, l’amore) che quel lutto si portava dietro.
Nel corso delle settimane, anche in sede di serial moments, abbiamo visto come lo stile settato da Michel Gondry abbia impregnato tutta la narrazione con quella fondamentale tensione. Fra comico e drammatico, fra luce e ombra, fra umani e pupazzi. Tutta la prima stagione è costellata di twist piccoli e grandi, non solo in termini di “sorprese narrative”, come la pattinata di sangue del penultimo episodio, ma anche nel senso di continui mutamenti di tono, che all’interno della stessa scena permettevano di passare attraverso atmosfere e stati d’animo completamente differenti: si pensi per esempio a una sequenza che nemmeno contempla il protagonista, come quella in cui Deirdre – la sorella di Jeff – sembra sviluppare un sentimento delicatamente romantico per il Mr. Pickles giapponese, salvo poi accorgersi che il tizio sta muovendo un pupazzo col pisello. Sbalzi di tono da montagna russa, che danno il senso della costante precarietà di tutto il sistema.
In questo senso bisogna correggere parzialmente il tiro circa una dinamica evidenziata dopo il pilot. Sembrava che la principale tensione fosse quella fra un Jeff che sa esattamente come gestire il lutto per la perdita del figlio, e un mondo esterno che vuole obbligarlo a essere il Mr. Pickles di sempre. In realtà, a questa tensione se ne aggiunge un’altra, tutta interna a Jeff. Scopriamo infatti che il nostro buon presentatore non ha poi le idee così chiare su “cosa” fare per uscire dalla spirale depressiva, e procede un po’ a tentoni. In parte cerca di proteggere la sua identità, come quando punta a difendere il suo show da contaminazioni e spin-off, o come quando cerca nell’amore per Vivian una strada per essere il solito, amorevole Jeff. Dall’altra parte, però, esplode di una rabbia violenta e incontrollabile ore dopo essere stato mollato dalla stessa Vivian, e accetta che la sua figura pubblica possa cambiare anche radicalmente, in cerca di un qualche sollievo.
Nell’ultimo episodio ci sono almeno due momenti cardine di questo percorso, all’inizio e alla fine. Quando Jeff viene chiamato ad accendere l’albero di Natale fuori dalla Casa Bianca, il discorso che fa alla nazione è intriso di disillusione e di amarezza, e si scaglia contro genitori assenti (come lui si sente nei confronti del figlio defunto) che hanno la colpa di aver abbandonato i figli affidandoli alla tv, e a lui in particolare. Allo stesso tempo, quello stesso discorso è la base per un fantastico twist, in cui Jeff mostra di aver appreso una lezione importante inserendo all’interno dei pupazzi con la sua immagine una semplice frase, “ti ascolto”, con cui diventare ancora più “padre sostitutivo” per loro.
Sembra insomma che ci siano stati uno sviluppo e una crescita, ma visto che siamo in una serie tv non ancora conclusa, sappiamo che non tutto può risolversi: lo show di Mr. Pickles viene sospeso/chiuso, creando la base per un ulteriore capitolo nello scontro fra vita vera e necessità di guarigione per Jeff; ma soprattutto, nel dialogo finale con Peter, Jeff prova a mettere in campo una grande maturità, abbracciando il nuovo compagno della ex moglie e affidandogli almeno in parte la crescita del figlio, salvo poi investirlo con la macchina quando si vede offrire una canna, lui che della lotta alla droga ha sempre fatto un baluardo della sua trasmissione.
Arriviamo alla fine della prima stagione di Kidding completamente sballottati. In fondo sappiamo di aver visto un drama, incentrato sui temi della perdita, dell’elaborazione del lutto, dello scontro fra necessità individuali e sovrastrutture di una società ipermediale che vuole costantemente imporci identità e stili di comportamento. Allo stesso tempo, abbiamo visto anche un sacco di altre cose: una comedy surreale, uno show di pupazzi, un mezzo musical, un thriller allucinatorio con molti elementi indecidibili dal punto di vista della concretezza reale o metaforica dei vari elementi. Eppure, tutta questa ricchezza visiva, musicale e narrativa non è andata a confondere i pochi punti centrali della riflessione, ma anzi ad arricchirli, e a dargli una consistenza molto più efficace rispetto ai soliti, tradizionali dialoghi-fiume della serialità televisiva. Una serie, insomma, che si è avvicinata molto cinema, nei termini della sfida rappresentazione vs spiegazione, e che l’ha fatto con un gusto spesso sorprendente.
Bravi tutti, bravo il creatore Dave Holstein, bravo Gondry e i suoi colleghi alla regia, bravissimo Jim Carrey e la sua continua, trattenuta follia. Tanta tanta roba.