The Romanoffs – Matthew Weiner, Amazon, e una serie da scoprire piano piano di Diego Castelli
Servono almeno due (lunghi) episodi per cominciare un affresco che potrebbe essere ben più profondo di quanto appaia al primo sguardo
SPOILER SUI PRIMI DUE EPISODI
Fin dai primi annunci circa The Romanoffs, attesissima serie di Prime Video creata, scritta e diretta da Matthew Weiner, padre di Mad Men, si sentiva distintamente l’aroma di un equivoco, apparentemente confermato dal pilot: se una serie tv presenta episodi completamente slegati fra loro (trama, personaggi, ambientazione), della durata di quasi novanta minuti, e connessi da un tema tanto strano quanto sottile, possiamo ancora parlare di “serie tv”? O dovremmo piuttosto parlare di collection di tv movie, o altra simile categorizzazione?
Come detto, il pilot non aiuta a risolvere il problema, anzi lo acuisce. Il primo episodio della serie potrebbe benissimo passare per film, e ambienta a Parigi una storia di incontro e scontro culturale, in cui una donna (Marthe Keller), fra gli ultimi eredi dell’antica famiglia russa dei Romanoff, fatica ad abituarsi alla sua nuova badante musulmana (Inès Melab), con grande frustrazione del nipote Greg (interpretato da Aaron Eckhart) e soprattutto della compagna di lui, la petulante Sophie (Louis Bourgoin).
Si tratta di un episodio dai toni commediosi, dove non manca il romanticismo, una spruzzata di lotta di classe, una Parigi tanto irrealistica quando splendidamente rappresentata, e un’eleganza del tutto che fanno pensare al Woody Allen più recente e, in generale, a un pezzo di buona televisione.
Allo stesso, tempo, è un episodio che pare completamente a se stante, che scorre via con una certa piacevolezza, ma che non lascia impresso granché, anche perché, soprattutto verso il finale, comincia a spingere i propri personaggi verso una risoluzione della vicenda che appare un po’ forzata: in particolare, la giovane e carismatica Hajar diventa una bambolina innamorata di Greg, da cui aspetta un figlio che la trasforma in una Cenerantola d’altri tempi. Finale romantico, problemi familiari risolti, un po’ di apparente buonismo, e via così.
Resta dunque l’impressione di aver visto un buon prodotto, ma non molto diverso da mille commedie europee che vengono girate ogni anno.
La situazione cambia guardando anche il secondo episodio, non a caso uscito insieme al primo (mentre gli altri verranno resi disponibili una volta a settimana). La seconda puntata cambia radicalmente l’ambientazione e il tono, buttando dentro un grande cast seriale (Corey Stoll, Kerry Bishé, Janet Montgomery, Noah Wyle) per raccontare una storia molto più turpe, in cui un uomo sposato, discendente dei Romanoff, si invaghisce di una donna conosciuta durante un processo in cui entrambi sono giurati, ed è disposto a manipolare lo stesso procedimento pur di sedurla. Ci riesce, si abbandona a un tradimento che, parallelamente, la moglie trascurata decide di rifiutare, e alla fine prova perfino a ucciderla, fallendo goffamente il tentativo.
Il tono è più quella della dark comedy, con piccole punte di grottesco, e sembra andare in tutt’altra direzione rispetto al pilot.
Quindi?
Ad aiutarci in questa specie di rompicapo, che si basa sulla fiducia guadagnata da Weiner con Mad Men, ci sono due scene in particolare, anzi due inquadrature: alla fine di entrambi gli episodi, la camera si concentra sulle due ex donne dei Romanoff, fidanzata e moglie tradite, e ce le mostra nell’atto di allontanarsi, con un sorriso che spunta sulle labbra a dispetto delle recenti disavventure (e chiamale disavventure, quello l’ha buttata giù da una scarpata…).
In quei due sorrisi leggiamo qualcosa di inaspettato, che presto associamo al concetto di liberazione. Per quanto non lo volessero o non l’avessero programmato, l’allontanamento dai Romanoff non può che risultare benefico. È un twist che cambia le carte in tavola, e che ci mostra con occhi nuovi tutto quanto abbiamo visto in precedenza.
A conti fatti, in entrambi gli episodi i Romanoff sono i cattivi. Sì, anche Greg che sembrava così carino e a modo e innamorato. Nelle corso delle quasi tre ore che compongono le prime due puntate, i Romanoff appaiono come depositari di un’eredità tanto pesante quanto anacronistica, si sentono parte di una dinastia che effettivamente non esiste più, ma da cui pretendono di trarre indebito vantaggio.
Nel comporre questo puzzle mentale, tutti i pezzi vanno al loro posto: l’esplicito snobismo (quando non razzismo) della vecchia Anushka, che non è nessuno se non la proprietaria di una vecchia casa; l’egoismo di Greg, viziato e sempre indeciso, che nemmeno degna di uno sguardo la vecchia fidanzata quando passa a quella nuova; la trasformazione di Hajar, che sotto l’influenza dei Romanoff perde la sua individualità per diventare semplice utero per il prosieguo della dinastia; l’arroganza con cui, nel secondo episodio, Michael piega tutto e tutti al volere della sua libido; le assurde messe in scena, ai limiti dell’offensivo, con cui la crociera a tema Romanoff a cui partecipa Shelly intrattiene i suoi ospiti, usando letteralmente nani e ballerine per ricordare i fasti della dinastia perduta.
Ma dunque chi sono davvero questi Romanoff, che tutto toccano e sporcano? Cos’è che Weiner sta cercando di rappresentare?
Beh, volendo fare un piccolo salto interpretativo, nemmeno troppo lungo, i Romanoff siamo noi. Inteso come Occidente, come impero così autocompiaciuto da non cogliere nemmeno i segnali dei suoi danni e, potenzialmente, del suo disfacimento. La dinastia Romanoff, che a suo tempo parve per anni quasi immortale, cadde sotto i colpi della Storia, travolta dalla rivoluzione bolscevica che a inizio Novecento fu solo uno dei primi grandi sommovimenti che caratterizzarono un secolo complessissimo ed epocale.
I Romanoff raccontati da Weiner sono i pochi discendenti rimasti di quella famiglia, sono sparsi sia in Europa che negli Stati Uniti, e scelgono di credersi chissà chi. Ricordano solo gli antichi fasti, dormono sugli allori, e si accontentano di vivere una gloria riflessa che ha perso il senso della sua esistenza (da qui l’attaccamento a un appartamento, o alle rappresentazioni sceme e goliardiche dell’epica zarista). Chiunque entri nella loro orbita, chiunque accetti di concedergli un potere che non dovrebbero avere, rimane invischiato in una vita povera, moralmente e narrativamente, piena di ricchezze esclusivamente superficiali, di cliché, destinata al fallimento.
Nella sigla Weiner mette proprio l’esecuzione dei Romanoff, un importante momento di passaggio storico che viene accompagnato dalla musica straniante (per quel contesto) di Tom Petty And The Heartbreakers, la cui “Refugee” del gennaio 1980 segnò un altro momento di passaggio, storico e musicale, e che ora si presta a nuove interpretazioni moderne, dove la parola “rifugiato” acquista significati ulteriori e assai attuali. Tutti gli episodi si aprono con quell’omicidio, con quella rivoluzione, e quella sigla sembra riassumere proprio ciò che lo spettatore vedrà: un mondo autoproclamatosi migliore ma che nasconde pesanti fragilità, un impero decadente che può anche baloccarsi con la commedia romantica o col grottesco, ma che può implodere da un momento all’altro, trascinando con sé chiunque non abbia avuto la prontezza di allontanarsene.
Scrivo queste righe pochi minuti dopo aver visto anche il terzo episodio, gentilmente allungatomi da Amazon un paio di giorni prima dell’uscita ufficiale. In questo caso, naturalmente, non faccio spoiler, ma basti dire che Christina Hendricks, la mitica Joan di Mad Men, interpreta un’attrice impegnata in una miniserie in costume che parla, pensa un po’, dei Romanov (con la v, perché ancora non sono “off”), e che è diretta da una discendente della famiglia. Se con la vostra adorabile pazienza avete letto tutto quello che ho scritto sopra, potete certamente immaginare che consegnare a una Romanoff contemporanea il compito di mettere in scena una rappresentazione della gloria dei Romanoff di allora, non può che essere l’anticamera di un disastro.
Ma c’è ancora molto da scoprire, in The Romanoffs, e avremo un quadro chiaro dell’affresco dipinto da Matthew Weiner solo a stagione ultimata. Una stagione che, a questo punto, ci gusteremo fino in fondo, perché il suo significato è tanto sfuggente quanto affascinante.
Perché seguire The Romanoffs: Matthew Weiner riesce a nascondere in episodi apparentemente slegati un filo rosso che, una volta colto, ti anima il cervello e spinge alla riflessione.
Perché mollare The Romanoffs: la metafora sottesa alla serie può non essere sufficiente per chi da ottanta e passa minuti a episodio vorrebbe qualcosa di più esplicitamente dirompente.