Disenchantment: recuperiamo una serie molto attesa e, purtroppo, non eccezionale di Diego Castelli
Da Matt Groening ci aspettavamo qualcosa di più
Da ormai diverse settimane gira questa specie di consapevolezza, per cui il 2018 sarebbe un grande anno seriale, dopo un 2017 un po’ sottotono. E io stesso ho molto creduto a questa storia nel corso dei mesi, per merito di cose davvero belle come Killing Eve, The Terror, Succession, Patrick Melrose e compagnia bella.
Solo che ora questa visione idilliaca si sta un po’ incrinando, perché già due delle serie più attese della tarda estate (Sharp Objects e Maniac) hanno almeno parzialmente deluso le aspettative, e ora abbiamo l’ansia che gli ultimi mesi dell’anno possano aggiungere nuovi motivi di disappunto.
A questa atmosfera inaspettatamente plumbea concorre anche un titolo uscito ad agosto, ma di cui ancora non avevamo parlato e sul quale non si può andare troppo teneri, pur nel timore di stare trasformandomi nel Villa.
Parliamo di Disenchantment, la serie animata di Matt Groening (papà dei Simpson e di Futurama) debuttata su Netflix in piena estata e depositaria di un sacco di aspettative tipo “chssà cosa può fare su una piattaforma non generalista come Netflix”, “Dai che gli orfani di Futurama avranno di che essere contenti”, e cose così.
Ebbene, no. Disenchantment è un po’ un disappointment, se mi permettete la freddura inglesista. Ambientato in un modo fatato-medievale e incentrato sulle vicende di una principessa alcolista che vive numerose avventure in compagnia di un elfo e di un piccolo demone, Disenchantment prometteva soprattutto un nuovo livello di parodia, nella consapevolezza che un genere ricco e tuttora fiorente come il fantasy potesse offrire ottimi spunti a quel geniaccio di Groening, che pure non è un fissato della parodia come potrebbe essere Seth MacFarlane.
Purtroppo, però, qualcosa non torna. La prima stagione è tutto sommato piacevole, ci sono diverse buone gag, e la storia, che inizialmente è un po’ impalpabile, trova poco oltre la metà un filo più solido da seguire, che conduce a un finale con tanto di cliffhanger.
Dal punto di vista della struttura, quindi, tutto sommato ci siamo. A mancare è proprio il sugo: all’inizio Disenchantment fa una fatica boia a ingranare, con puntate dal ritmo molto basso e una qualità delle gag non oltre la media. Ma il vero problema è quando ci si rende conto che, pur migliorando leggermente con l’andare degli episodi, non c’è mai quello scarto che ci saremmo aspettati, quel guizzo che ci fa applaudire a scena aperta soluzioni che mai ci saremmo aspettati.
Per dirla in un altro modo, i fan di Groening pensavano che l’autore avesse trovato in Netflix una valvola di sfogo per una porzione di comicità dirompente ancora al sicuro nel suo cervello, e mai mostrata al pubblico per esigenze prettamente televisive, di palinsesto ecc.
Questa era la visione romantica di chi attendeva Disenchantment come futura nuova hit. A ben guardare, però, è come se Groening non stesse nascondendo proprio niente: ha preso in mano il progetto, l’ha plasmato con il suo stile, ma niente più di questo. Non c’è nulla, in Disenchantment, che non potrebbe andare in onda su FOX, nessuna accelerata linguistica o strutturale. È una parodia del fantasy, a volte nemmeno troppo ispirata, e morta lì.
Qui e là ho letto dei tentativi di difesa che tirano in ballo certe peculiarità della protagonista, una principessa decisamente inusuale, complice soprattutto il suo alcolismo. Tutto vero e legittimo, ma deludente nella misura in cui questi elementi rimangono in gran parte un contorno, un elemento non così decisivo della psicologia del personaggio.
Intendiamoci, non è che tutte le serie animate in cui un protagonista ha qualche problema devono trasformarsi in meravigliosi trattati sulla depressione alla Bojack Horseman. Ci sta che Groening abbia voluto tenere tutto su un registro diverso. Il rovescio della medaglia, però, è quello di seminare diversi spunti potenzialmente interessanti nella storia, senza però approfondirli in alcun modo, aggiungendo ulteriore frustrazione. Senza contare che Groening ce l’ha già fatto conoscere un protagonista con problemi di alcol (Homer), e che la revisione comico-cinica del fantasy tradizionale è già cominciata, udite udite, 17 anni fa con Shrek. Quindi insomma, bisognava fare qualcosa in più.
Perché seguire Disenchantment: i fan di Matt Groening ritroveranno la sua comicità e il suo stile, in una stagione che inizia un po’ lenta ma poi cresce.
Perché mollare Disenchantment: Ci aspettavamo qualcosa di dirompente, e invece fa il compitino e poco più.