Black Earth Rising – L’ambizione che diventa una zavorra di Marco Villa
Black Earth Rising è una serie tv ambientata al Tribunale Internazionale dell’Aja che si complica la vita da sola
Il sottile confine tra un soggetto diverso dal solito e il bisogno di distinguersi a tutti i costi. Sottile perché la volontà di essere inediti è forse l’elemento che cerchiamo con maggiore insistenza qui a Serial Minds, consapevoli però che a volte possa diventare un’ossessione che si ritorce contro i creatori di una serie. Come accade in Black Earth Rising, senza dubbio tra le più ambiziose serie viste quest’anno, ma anche tra le più pretenziose.
Partita il 10 settembre su BBC Two e in arrivo nei prossimi mesi su Netflix, Black Earth Rising è creata, scritta e anche diretta da Hugo Blick, già autore di serie come The Honourable Woman e The Shadow Line, entrambe caratterizzate da asticelle altissime. Anche con Black Earth Rising succede lo stesso e basta la trama a spiegarlo: l’ambientazione è quella della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, ovvero il tribunale internazionale che si occupa di crimini di guerra. Qui lavora Eve Ashby (Harriet Walker), procuratore molto in gamba, che si trova alle prese con un generale rwandese costretto a consegnarsi. Il generale in questione è stato alla guida dell’esercito che fermò in Rwanda lo sterminio dei Tutsi da parte degli Hutu, ma in seguito è diventato a sua volta responsabile di crimini di guerra. Quindi non il cattivo tagliato con l’accetta, ma un cattivo che ha fatto un giro talmente tortuoso da richiedere tre spiegoni dritti dritti sulla sua parabola.
A questa va aggiunto il fatto che la procuratrice Eve ha una figlia adottiva di etnia Tutsi, interpretata da Michaela Coel (già protagonista di Chewing Gum), che ha subito violenze e torture proprio da parte degli Hutu e che vede come un eroe il generale Tutsi che ha fermato il massacro della sua gente. Gente di cui non conosce nulla, perché Kate, questo il nome della ragazza, non sa nemmeno il suo vero nome: e su questo passato fumoso probabilmente si baserà lo sviluppo della storia, che difficilmente potrà essere chiusa solo tra le stanze di un tribunale.
L’ambizione è evidente: l’ambientazione al tribunale dell’Aja è una scelta importante e coraggiosa, ma il doppio giro sul passato dell’imputato imbriglia subito la vicenda in una serie di sfumature etiche, che bloccano sul nascere lo sviluppo della storia. La complicata situazione famigliare della procuratrice, con figlia non solo di etnia Tutsi, ma anche quasi-collega in quanto assistente al Tribunale Internazionale. E si tratta solo del setting iniziale, a cui va aggiunto un John Goodman che interpreta un collega di Eve con la figlia in coma irreversibile e una trama parallela ambientata in Congo all’interno di una truppa di caschi blu dell’ONU. Anche qui drammi a manetta con dilemmi etici e tragedie già dal primo episodio.
A questa complessità narrativa, si aggiunge poi una direzione degli attori di stampo molto teatrale e una regia che sceglie uno stile eccessivamente drammatico, fatta di inquadrature e dettagli che cercano in continuazione la chiave dell’intensità. Non è una serie facile, ma quello sarebbe il minore dei problemi: la questione alla base di Black Earth Rising è che si tratta di una serie non risolta, che non sa cosa vuole essere. E questo è chiarissimo già dal principio, dalla prima sequenza, in cui, in un contesto simile all’incipit di The Newsroom, la protagonista si trova ad affrontare un panel pubblico in cui uno spettatore la accusa di portare avanti con modi diversi un’impostazione di stampo colonialista, in base alla quale i bianchi europei vanno a risolvere i problemi che gli africani non sanno affrontare. Posizione interessante, peccato che il creatore della serie Hugo Blick sia bianchissimo. Di nuovo: nessun problema, ci mancherebbe, ma la sensazione di qualcosa di non risolto si accentua.
Perché guardare Black Earth Rising: per il tema oggettivamente nuovo
Perché mollare Black Earth Rising: perché l’ambizione si trasforma in pretenziosità