La serie tv dei fratelli Coen in concorso a Venezia e forse agli Oscar. Non ci capiamo più niente, e forse è bello così! di Diego Castelli
Il mondo ormai è cambiato, tanto vale buttarsi
Con l’annuncio del programma completo del Festival di Venezia, la maggior parte degli osservatori ha applaudito convintamente, perché c’è tantissima roba e, si suppone, roba buona.
Ma al netto della quantità e qualità dei titoli, c’è spazio anche per una discussione sempre più importante sui formati.
La principale scintilla che in queste ore accende il fuoco di approfodimenti e polemiche è la presenza, in concorso, di The Ballad of Buster Scruggs, la miniserie antologica in sei parti firmata dai fratelli Coen per Netflix.
La domanda, ingenua e tutto sommato neutra, nasce spontanea: ma come, una serie tv a episodi che partecipa in concorso a un festival di cinema?
In pratica è il passo ulteriore di una discussione che si trascina da diverso tempo e che finora ha ruotato soprattutto intorno al Festival di Cannes, dove si è cominciato a riflettere, prendendosi a sberle, sul fatto che un film prodotto per la tv (anzi per il web) avesse o meno il diritto di stare insieme a film che vanno al cinema.
Una discussione per molti peregrina, e per molti altri invece fondamentale, in una divisione sempre più fluida e articolata fra modernisti e tradizionalisti, che tutto sommato ha avuto il risultato di aumentare l’interesse sul prodotto, che di per sé male non fa.
A me nemmeno interessa prendere una parte specifica nel dibattito. Con riferimento a Venezia, ho l’impressione che entrambe le parti abbiano le loro ragioni, perché se è certamente vero che fa strano sentire di una serie tv che partecipa a un concorso cinematografico, è altrettanto vero che sono stati gli stessi fratelli Coen a esplicitare il loro amore e ispirazione per certi vecchi film italiani degli anni Sessanta e Settanta, quelli che mettevano insieme più episodi produttivamente slegatissimi (dal regista agli attori alle location) ma tutti incentrati su un unico tema o ambientazione più o meno concreta (che poi è quello che succederà con The Ballad: episodi slegati e di durate anche molto diverse).
A mio giudizio, scrivendo su queste pagine da appassionato di serie tv (ma sono anche uno che col cinema ci lavora tutti i giorni), la questione davvero rilevante è che questo dibattito esista. Se fate correre il pensiero anche solo a dieci anni fa, per non parlare di venti o trenta, l’idea che la serialità televisiva potesse ardire ad entrare nei salotti buoni dell’audiovisivo, era semplicemente folle. Un po’ per snobismo, certo, ma anche perché effettivamente mancava la materia prima.
Nel 2018, ogni appassionato seriale sa bene quanto prodotto buono esista, quanto sia aumentato di pari passo con l’aumentare delle piattaforme non più legate al rigido concetto del palinsesto, e quanto la differenza con il cinema di sala, se si escludono i megablockbuster con centinaia di milioni di dollari budget, sia sempre più sottile.
Sono sempre più i critici cinematografici (specie giovani) che sanno di non poter prescindere dalla visione delle serie tv in quanto terreno di produzione e sperimentazione, perché il riflusso di autori, registi, sceneggiatori, attori fra piccoli e grande schermo è ormai una realtà troppo consolidata per passare inosservata, e perché proprio le nuove piattaforme consentono una libertà creativa che a molte reti televisive, specie generaliste, rimane preclusa.
In questo contesto, le prese di posizione dei festival diventano significative quasi a prescindere dal loro contenuto: che un festival rifiuti i nuovi soggetti e formati produttivi, o che invece li abbracci e li nobiliti con il suo bollino di qualità, a tenere banco è proprio il fatto che abbiano sentito la necessità di esporsi, perché la pressione che il mondo del piccolo schermo, e segnatamente seriale, esercita sulla cultura di massa e sulla percezione collettiva del pubblico non è più ignorabile.
Se l’ambiente del giornalismo specializzato e degli appassionati duri e puri si concentra sui cavilli, sulle sfumature e sui dettagli (come è giusto che sia) quello che arriva al grande pubblico è il profumo di una rivoluzione: se la tv tradizionale ancora esiste – e fa numeri esorbitanti e mi paga lo stipendio, quindi trattiamola come si deve – è comunque palese che sta cambiando il paradigma con cui il pubblico si approccia all’audiovisivo. La differenza la fa sempre meno il come si guardano le cose (se al cinema, in tv a casa, sul cellulare in metropolitana, scegliendo e manipolando la propria personale fruizione), e sempre più cosa si guarda, con un’accettazione sempre più massiccia del fatto che a essere importante è esclusivamente l’abilità degli autori e la capacità dei loro prodotti di generare discussione, entusiasmo, perfino dipendenza.
Il fatto che anche un Festival antico e rinomato, e fino a poco tempo fa molto ingessato, come quello di Venezia, se ne renda conto, significa che il nostro semplice guardare, twittare, hashtagrammare (e pagare-per-vedere, naturalmente) ha un potere che da soli, sul nostro divano, facciamo ancora fatica a quantificare.