The Handmaid’s Tale 2 season finale: di tutto, di più, e anche oltre di Diego Castelli
The Handmaid’s Tale chiude la stagione con un episodio che unisce alcuni dei peggiori difetti e dei migliori pregi della serie
SPOILER SU TUTTA LA SECONDA STAGIONE
The Handmaid’s Tale è stata una delle migliori novità del 2017. E non dico “la migliore”, anche se lo penso, perché ognuno ha i suoi gusti ed è bello così. Ma che sia stata un potentissimo centro di gravità seriale è impossibile negarlo.
Naturalmente, questo improvviso successo ha alzato le aspettative per la seconda stagione, che aveva il compito di affrontare altre due questioni assai rilevanti: da una parte l’assenza di una matrice letteraria diretta, come avvenuto per la prima stagione; dall’altra un mutato contesto sociale e culturale: The Handmaid’s Tale ha cronologicamente anticipato il movimento #MeToo e la nuova, più robusta consapevolezza della condizione femminile in Occidente, e con la seconda stagione si è trovata a essere la serie che più di tutte trattava questo tema, seppur in modo iperbolico e distopico, ed ad avere per questo ancora più occhi addosso di prima.
Insomma, questo nuovo ciclo di episodi aveva tutto non solo per fallire e deludere ma anche, detta in soldoni, per pestare merde colossali.
Qualcuno, nel corso delle settimane, ha perfino sostenuto che l’abbia fatto. Fin dall’inizio della stagione, infatti, più di una voce si è alzata per porre una questione piuttosto spinosa, legata alla possibilità che The Handmaid’s Tale, con le continue vessazioni subite dalle sue protagoniste per esigenze di trama, stesse promuovendo una paradossale pornografia del dolore, in cui il piacere quasi primitivo del vedere soffrire i personaggi (pur in un’ottica di futura rivincita) rischiava di superare le riflessioni che stavano dietro quelle sofferenze.
Un tema certamente complesso che non merita di essere liquidato in poche righe, ma lo farò lo stesso perché voglio parlare d’altro. Diciamo che non sono d’accordo, mi sembra un’interpretazione eccessivamente pessimista, che tiene in scarsa considerazione le capacità di decodifica degli spettatori e, soprattutto, l’abilità di chi la serie la produce nel mettere bene in chiaro quali sono gli elementi centrali dello show. Un po’ come quando ci si lamentava del fatto che in Game of Thrones Sansa venisse stuprata “troppo brutalmente”, come se da qualche parte ci fosse effettivamente una Sansa Stark che aveva subito quella violenza in nome della serialità televisiva e del voyeurismo godereccio degli spettatori. Ecco, mi sembrano timori che per il momento rimangono al di là del sottile ma visibile confine della ragionevolezza.
Se però vogliamo trovare qualche difetto nella seconda stagione di The Handmaid’s Tale, possiamo farlo senza grossa difficoltà, e ci basta concentrarci sulla sua scrittura. Al contrario della prima stagione, che era parsa estremamente coerente e coesa, e costruita su uno sviluppo chiaro e limpido dall’inizio alla fine, la seconda è apparsa palesemente più farraginosa e schizofrenica. Il simbolo del problema può essere il rapporto fra June e Serena, che ha subito così tante giravolte e alti e bassi, da superare di slancio la giustificazione della crescita personale e morale della signora Waterford, per entrare nel più puro panico da abbiamo-troppi-episodi-per-quello-che-vogliamo-dire.
Soprattutto, qui e là è apparsa netta la difficoltà nel creare fili narrativi abbastanza solidi fra le diverse scene madri che gli autori avevano palesemente in testa fin dall’inizio. Pensiamo alla fretta con cui Eden viene trovata e uccisa dopo il suo tradimento, tutto per correre all’esecuzione in piscina, o al modo in cui un personaggio potenzialmente spesso come Joseph Lawrence tradisca, sul finale, la sua natura di mero strumento per l’accorata scena in cui June affida la bambina a Emily prima di rinunciare alla fuga (ma di questo parliamo meglio dopo).
Qualche passo falso insomma, una specie di ansia da prestazione che ha portato a concentrarsi maggiormente su alcune (anzi, parecchie) scene di grande impatto e significato simbolico, sacrificando la fluidità del racconto.
E qui però basta con le critiche. Perché se anche tutto quello che abbiamo detto fino ad ora è vero (ammesso e non concesso), rimane il fatto che però quelle scene di grande impatto e significato simbolico ci sono, sono girate da Dio, e ficcano pugnalate nelle nostre coscienze.
Visto che qui stiamo parlando specificamente del finale, proviamo a passarne in rassegna qualcuna.
-L’inizio è già abbastanza folgorante: June e altre ancelle si occupano delle vesti ormai orfane di Eden, che sono tutto ciò che rimarrà di lei dopo la morte (a Gilead, se sei fedifraga non hai nemmeno diritto a una lapide). June maneggia i vestiti, fino a trovare anche la Bibbia di Eden, e riflette sul fatto che ogni donna, a Gilead, sia imprigionata in una specifica uniforme: moglie, ancella, marta, peccatrice, eretica. Gabbie concettuali da cui è impossibile fuggire in cerca di emancipazione. E proprio questa lotta per uscire da un guscio creato artificialmente è al centro di tutto l’episodio.
-Nella serra, June e Serena discutono proprio della Bibbia di Eden, su cui la ragazza (che evidentemente sapeva leggere) ha vergato un sacco di note. Per June è una grande notizia, un barlume di umanità e di cultura in una quindicenne altrimenti legata alla sua immagine di mogliettina senza cervello. Per Serena, invece, quelle note sono un peccato, il tentativo di stare in un posto che non è il proprio. Non dimentichiamo che l’episodio si chiama “The Word”, “La Parola”, inteso naturalmente come parola di Dio che dovrebbe guidare gli abitanti di Gilead. Una parola che però non è mai conosciuta direttamente, ma solo attraverso una e una sola delle molte interpretazioni possibili: come in tutti i fondamentalismi che si basano su un testo sacro, l’interpretazione di esso non è più lasciata ai fedeli, ma all’autorità politico-religiosa che li controlla.
-Altra scena tragicamente memorabile: il padre di Eden si scusa coi Waterford per il comportamento della figlia, e rivela di essere stato lui a denunciarla alle autorità (che è equivalso a mandarla a morire). Normalità per Fred, incazzatura per June, e un altro passetto di Serena verso la sanità mentale, o qualcosa del genere.
-Poco dopo June fa in tempo a prendere schiaffi veri e simbolici da entrambi gli uomini della sua (attuale) vita: Fred la mena proprio, disprezzandola in quanto donna, e Nick non risponde al suo “ti amo”, forse perché ormai troppo impaurito da quello che può succedere.
-Serena, intanto, “passa dall’altra parte”. A convincerla non è tanto la ragione, che June ha cercato di inculcarle per mesi, quanto piuttosto l’amore materno. Parlando anche con altre madri, Serena si rende conto che sua figlia (femmina) sarà inevitabilmente condannata a una vita di servilismo e assenza di prospettive. Così prende su le amiche e si presenta al Consiglio per chiedere che anche le ragazze di Gilead abbiano il permesso di leggere le Scritture. Questa è un’altra scena magistrale: la richiesta di Serena ai nostri occhi appare non solo ragionevole, ma perfino ridicola, scontata. Anzi, per noi spettatori del 2018 sono spesso proprio le Scritture il problema, e consigliamo ai testimoni di Geova che ci suonano il campanello di leggere anche altro. Qui invece è la Bibbia a essere un traguardo irraggiungibile: situazione completamente paradossale per delle donne così pie.
Serena parla a una congrega di uomini che la guarda sotto i riflettori come se fosse un capo di bestiame, e quando si mette a leggere qualche passo della Bibbia di Eden viene perfino abbandonata da alcune delle sue compagne: a Gilead, il semplice fatto che una donna legga è considerato sovversivo. Un’iperbole potentissima, che in una volta sola evoca un passato nemmeno troppo lontano (basta ricordare, per esempio, che in Italia le donne votano da 72 anni, mica da 500), parla di minoranze, emarginazione e razzismo, e simboleggia il terribile potere dell’ignoranza, usata da secoli dalle tirannie come strumento di coercizione: prima regola per gestire i sudditi, è impedire che sviluppino una coscienza critica.
-Per la sua arroganza Serena ci rimette un dito, e la delicatezza con cui Fred la accompagna a casa dopo la punizione corporale che lui stesso le ha fatto infliggere, è lo specchio perfetto del suo delirio, in cui ogni concessione è vista come gentilezza disinteressata, e ogni punizione come un dovere morale e divino. Ma Fred è anche un freddo manipolatore, che di fronte alle nuove rimostranze di June le spiega pacatamente come il suo comportamento nelle prossime ore e giorni determinerà la sua possibilità di stare o meno a casa loro, e quindi vicino alla piccola Holly/Nichole. In questa serie l’impressione è che gli uomini abbiano sempre tutte le carte in mano, alcune delle quali consegnate dalle donne stesse.
-Alternata alla vicenda di Serena c’è quella di Emily: se Lawrence finisce col perdere quell’importanza filosofica che speravamo di vedergli attribuita, ciò non toglie che a casa sua si consumi un’altra scena fondamentale, cioè l’aggressione ai danni di Lydia. La bella interpretazione di Alexis Bledel ci riconsegna una Emily ancora combattiva, pronta a tutto, che pugnala Lydia e la prende perfino a calci (con una certa nostra soddisfazione, devo dire), per poi essere travolta da un misto di euforia e preoccupazione, uno smarrimento che ci mostra la sua progressiva trasformazione in una sorta di animale capace solo di difendersi.
-Si giunge così alla lunga scena finale, in cui a June viene offerta la possibilità di fuggire con la figlia. Ancora una volta, abbiamo l’impressione che a questo twist si arrivi in maniera un po’ frettolosa e quasi casuale. Ma questo non toglie nulla alla forza della mini-odissea di June, che con in braccio la figlia passa di giardino in giardino, aiutata da una silenziosa ribellione delle Marta, per correre verso una salvezza che pare davvero a portata di mano. Poco prima della partenza c’è tempo per quella che al momento sembra la vera redenzione di Serena, che scopre June e potrebbe fermarla, ma decide invece di lasciarla andare per amore della bambina (il momento in cui Serena si trova in mano la piccina, con cui potrebbe teoricamente tornare in casa, è consapevolmente lungo per rendere il peso della fiducia e del perdono che June concede alla ex nemica).
-E qui arriva il twist. June è finalmente lontana dai suoi inseguitori, viene raggiunta da Emily, e insieme hanno l’opportunità di salire su un mezzo blindato che le porterà lontano, immaginiamo in Canada. Solo che June rinuncia, affida la bambina a Emily, le dice di chiamarla Nichole (il nome scelto da Serena), e poi rimane indietro, con un’espressione da vendicatore incazzato stampata sul volto. E’ forte qui la tentazione di piazzare un bel “vaffanculo”, perché la dinamica con cui June prende la decisione non riesce a toglierci del tutto la sensazione che si tratti di una necessità di sceneggiatura, piuttosto che di una verosimile presa di posizione del personaggio. Allo stesso tempo, considerando che June ha già provato a scappare nel corso di questa stagione, e che da quel momento a questo sono successe altre cose importanti a persone a lei molto vicine, la scelta di rimanere a combattere ci trasmette comunque una qualche euforia, e lascia alla terza stagione il compito di dare una cornice credibile a questa scelta, ma soprattutto alle sue conseguenze.
Diamo abbastanza per scontato che The Handmaid’s Tale non stia per diventare Kill Bill, con June incazzata che se ne va in giro a squartare tutti i maschi che incontra. E questo nonostante il cappuccio e l’aria da vigilante Marvel. Più probabile che in qualche modo riesca a rientrare nella famiglia Waterford, con modalità tutte da definire ma che non ha grande senso criticare a priori. Indubbiamente, però, la decisione di restare a Gilead rappresenta una svolta decisiva per la protagonista, che rifiutando la fuga nega prima di tutto a se stessa la condizione di vittima, per cercare di riprendere in mano la vita sua e delle donne che ha intorno.
Insomma, The Handmaid’s Tale potrà anche inciampare qui e là, farsi prendere dalla foga, perdere ogni tanto la bussola. Ma rimane una delle serie tv più coraggiose su piazza, proprio per la volontà di cercare sempre e comunque il significato oltre l’intrattenimento, e la costruzione di un’impalcatura audiovisiva (anche più che narrativa) che regga e rilanci quell’intento culturale e filosofico, impedendogli (quasi sempre) di diventare stucchevole.
Una serie di donne, ma con due palle così.