Pose: da Ryan Murphy un pilot troppo lungo, però bello! di Diego Castelli
Con Pose, Ryan Muprhy propone l’ennesima serie super ambiziosa, e l’inizio è positivo
Quando ho visto che il pilot di Pose – nuova serie di FX creata da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals – durava quasi un’ora e venti m’è venuto lo sconforto.
Soprattutto considerando che quando esce una nuova serie di Ryan Muprhy finisce sempre col portarsi dietro l’aura da nuova rivoluzione, da “oh mio dio cose mai viste”, e tutta quell’atmosfera da evento che alle volte può pure spaventare un po’.
Aggiungeteci che si parla di una serie super-ambiziosa, con il cast più grande mai messo insieme per un prodotto tv e la promessa di almeno 50 personaggi transgender, ed ecco che l’impressione era quella di approcciarsi a qualcosa di troppo grosso per una sonnacchiosa serata di inizio giugno.
(perché sì, pure ai serialminder piace l’idea che in estate si possano seguire poche serie carucce senza per forza perdere il cervello)
E chissà che non siano state proprio le aspettative basse, o il timore/certezza che Ryan Murphy scrive e produce troppe serie perché siano tutte una bomba, a farmi avvicinare più guardingo del solito a un pilot che però, alla fine dei conti, mi è proprio piaciuto.
Ambientata nel 1987, Pose racconta di una divisione all’interno della società americana e soprattutto newyorchese: da una parte il mondo bianco, ricco e finanziaro, il mondo di Donald Trump e dei borghesi accecati del denaro e dalle belle cose, in cui puoi trovare un James Van Der Beek che tira di coca vantandosi del suo costosissimo orologio (di cui, sia chiaro, ha quattro modelli diversi). Dall’altra parte, invece, un sottobosco di emarginazione, di minoranze nere, gay, transgender, che si sente escluso dalla società “per bene” imposta come unica accettabile.
Certo, visto così sembra l’ennesimo setting ricchi vs poveri, felici vs depressi, ma qui arriva il twist legato alla cosiddetta “ball culture”, subcultura LGBT in cui le persone, raccolte in “case”, organizzano e partecipano a balli, sfilate, gare di danza, eventi identitari che si trasformano in una vera e propria società parallela, un luogo dove sfogare creatività e passione, fuori dall’orario di lavoro e lontano dagli occhi dei ben inseriti nella cultura “ufficiale”.
È qui che conosciamo Blanca Rodriguez (MJ Rodriguez) trangender appartenente alla famosa House of Abundance. Nel corso del pilot Blanca scopre di essere positiva al virus dell’HIV, ma invece di abbattersi di fronte alla notizia decide di lasciare la sua casa e fondarne un’altra, in una sorta di ultimo treno che passa prima di una sentenza che non lascia scampo.
Fondando una sua casa (House of Evangelista), Blanca ha bisogno di nuove reclute, e ci introduce così ad altri personaggi importanti, fra cui spiccano Damon (Ryan Jamaal Swain), diciassettenne gay appassionato di danza e appena cacciato di casa, e Angel (Indya Moore), giovane prostituta transgender che segue Blanca nella sua nuova avventura e intanto coltiva sogni d’amore proibiti.
Sul fronte “bianco” della serie c’è l’immancabile Evan Peters, qui nei panni di Stan, impiegato appena assunto dal personaggio di James Van Der Beek. Sposato (con Kate Mara) e con figli, Stan non può però fare a meno di ricorrere all’aiuto di Angel, che più che per il sesso viene ingaggiata come confidente e valvola di sfogo di una vita altrimenti troppo incasellata e soffocante (cosa che scatena sentimenti pericolosi nella stessa Angel, ben presto innamorata di Stan).
Quello di Pose è un mondo colorato e caotico, pieno di personaggi, di costumi, di balli, di speranze e di tragedie, in pienissimo stile Ryan Murphy. C’è sicuramente una specie di intento “didattico” da parte degli autori, la voglia di far conoscere al grande pubblico un mondo che la maggior parte degli spettatori non ha mai sentito nominare (eccomi, presente!). E forse è la componente che appesantisce di più il pilot, la cui lunghezza è comunque un po’ eccessiva rispetto a quello che racconta.
Accanto a questo però, c’è un’innegabile energia. Difficile non vederci qualche somiglianza con il pilot di Glee, che all’epoca arrivò come un fulmine a ciel sereno raccontando di sfigati alla riscossa e generando un immediato e fanciullesco entusiasmo (salvo poi perdere molta della sua forza negli episodi e stagioni successive).
Con Pose non siamo tanto distanti, anche se ci sono un paio di passi in più. Si parla ancora di emarginati, di esclusi, che cercano di trovare una strada alternativa per esprimersi e trovare un proprio posto nel mondo. Ma se in Glee gli sfigati cercavano comunque di entrare nel mondo luccicante del successo, facendo vedere che in fondo non erano così sfigati, in Pose succede una cosa diversa: il mondo della ball culture e delle houses non cerca nemmeno di farsi notare dal resto della società. Rappresenta invece la costruzione di un universo realmente alternativo, e quindi autosufficiente, in cui il valore della fama, del rispetto e del riconoscimento da parte della propria comunità trova completa soddisfazione nel sistema orgogliosamente chiuso delle houses.
L’unica apertura verso l’esterno, in questo senso, è rappresentata da Damon, che cerca di entrare in una scuola di danza “regolare”, trovando in questo l’aiuto appassionato di Blanca e dei suoi nuovi amici.
Pose si porta dietro il gusto tradizionalmente esagerato di Ryan Muprhy, uno che la sobrietà non sa nemmeno cosa significhi. E però, al di là del peso inevitabilmente politico che finirà con l’assumere una serie di questo genere e con questi personaggi, Pose è anche e soprattutto dotata di una straordinaria sincerità e delicatezza. I protagonisti si atteggiano a star consumate e regine del lusso (“pose” in fondo vuol dire proprio questo, “atteggiarsi”), ma quando tornano a casa, quando devono far quadrare i conti, quando vanno dal medico a farsi dare brutte notizie, mostrano la loro anima più fragile e semplicemente umana, con tutti i pro e i contro.
Nel pilot c’è anche un minimo di spazio per il confronto/scontro fra la subcultura dei protagonisti e la società tradizionale, specialmente nel rapporto tenero eppure un po’ inquietante fra Stan e Angel. Ma in verità questo tema è almeno in parte rimandato alle prossime puntate, perché per ora l’interesse è concentrato sull’immergere lo spettatore in un mondo di cui probabilmente non sa nulla, e in cui trova un’umanità letteralmente spumeggiante, dove passione, desiderio, paura e spettacolo si agitano con sorprendente vitalità (tutte riassunte, senza spoilerare troppo, nella scena di ballo finale).
In passato ci è già capitato di vedere una creatura seriale di Ryan Murphy partire benissimo, per poi perdere la sua anima più genuina in favore di una tecnica progressivamente più fredda e ripetitiva (è successo con Glee, American Crime Story, in parte con American Horror Story), quindi ci tocca rimanere sospettosi.
Però Pose trasuda di un amore per i propri personaggi che diventa inevitabilmente contagioso, e che per ora ci fa passare sopra i rischi e le lungaggini di un pilot che comunque poteva durare serenamente 20-25 minuti di meno.
Perché seguire Pose: racconta di un mondo poco conosciuto in cui si muovono personaggi dotati di grande forza e umanità.
Perché mollare Pose: è una serie dichiaratamente ambiziosa, caotica e ampollosa come piace a Ryan Murphy. Spettatore avvisato…