Patrick Melrose: benvenuti al Benedict Cumberbatch Show! di Diego Castelli
Patrick Melrose potrebbe essere l’interpretazione più folle e debordante del nostro Sherlock
Personalmente non ho mai recitato in vita mia, e solo una volta, in circostanze di cui suppongo non vi freghi nulla, ho partecipato a un breve corso di teatro. Ma se devo immaginare la vita quotidiana di un attore, uno che per la recitazione ha una specifica passione, allora credo ci siano pochi progetti più azzeccati di Patrick Melrose, la nuova serie di Showtime e Sky Atlantic.
E non lo dico perché ho letto i libri semi-autobiografici di Edward St Aubyn (effettivamente non li ho letti, quindi non chiedetemi confronti che tanto non mi interessano) ma perché, a vedere cosa accade nel primo episodio, è evidente che chiunque si trovi a interpretare il protagonista che dà il titolo alla serie, ha la possibilità di dare fondo a tutte le sue capacità, in mille direzioni diverse.
A noi è andata di gran culo, se mi perdonate il francesismo, che nello specifico quel qualcuno sia Benedict Cumberbatch, senza dubbio uno degli attori più dotati della sua generazione, nonché uno dei nostri ciccini preferiti.
La storia alla base di Patrick Melrose è estremamente semplice: un drama incentrato sulla vita assai sregolata di un tizio che deve andare a New York a prendere le ceneri del padre morto pochi giorni prima (e interpretato da Hugo Weaving). Il viaggio è per Patrick l’occasione (sgradita) di ripensare alla figura del padre, dispotica e autoritaria, e in generale alla propria vita di rampollo disagiato di una famiglia ricca, in cui cose banali come amore e affetto non sono mai esistite, se non in versioni devianti e difettose.
A superare di slancio la banalità del concept, e a trasformare la miniserie in un vero e proprio Cumberbatch Show, è la dipendenza di Patrick dalle droghe. Eroina, cocaina, speed, alcol, medicinali, citatene una e a Patrick va bene, basta che gli permetta di superare gli effetti collaterali delle droghe precedenti e tenere la sua mente lontana dall’angoscia. E questa dipendenza, avvolta intorno a un nucleo di profondissimo disagio esistenziale, è la base su cui gli autori e il protagonista hanno montato un circo d’antologia.
Sì perché a parlare di droga e drammi familiari, verrebbe da pensare a un mattone indigeribile. Così non è, perché l’autodistruttività di Patrick viene in larga parte trasformata in una messa in scena barocca, allucinata, dal ritmo sincopato, spesso esplicitamente buffa, costantemente sopra le righe.
Al contrario del primo drogato straccione che passa per strada, Patrick è molto danaroso, e quindi non ha difficoltà a comprarsi la roba migliore e a consumarla in luoghi raffinati come suite d’albergo e ristoranti di lusso.
A Cumberbatch, durante un lungo pilot in cui le sue reazioni alle droghe sono il primo oggetto della rappresentazione, viene chiesto di esagerare sempre e comunque, e il nostro (ex?) Sherlock ci sguazza alla grande: a colpire non è solo la sovrabbondanza di tic, gesti, inflessioni vocali e repentini cambi di tono che l’attore riesce a condensare nello spazio di singole scene concitate, ma anche e soprattutto il lavoro fatto per dare una rappresentazione precisa di ogni singola droga, che ha su Patrick un effetto ogni volta diverso, trasformandolo in una trottola impazzita il cui umore viaggia su montagne russe senza fine.
La performance del buon Benedict è esplicitamente debordante, fascinosa come solo il puro talento riesce a essere, ma in un pilot di un’ora finirebbe con l’essere stucchevole se non fosse supportata anche da qualcos’altro.
Da una parte c’è una regia avvolgente e sinuosa, che non teme i movimenti di macchina più arditi per stare dietro alla follia del protagonista, e un montaggio sovraeccitato che però (e qui cogli il ragionamento dietro l’apparente cazzeggio) non dimentica di placarsi improvvisamente durante i flashback sull’infanzia di Patrick, dove il padre dall’occhio luciferino lasciava il suo imprinting di paura e disagio sul piccolo protagonista. In quel contrasto fra l’infanzia lenta e paurosa e il presente libero e selvaggio ma ugualmente infelice, cominciamo a renderci conto di come l’eccesso visivo di Patrick Melrose abbia comunque una sua logica, perché la misura dell’eccesso è, in questo contesto, la misura del dolore: a un dolore più profondo corrisponde un maggiore inabissamento nella droga, il cui effetto anestetizzante è sempre meno efficace.
Ed è proprio qui, dietro le luci stroboscopiche della recitazione di Cumberbatch, che cogliamo anche le sfumature di una scrittura che lascia sicuramente molto spazio alle bizze del protagonista, ma non rinuncia ad alcune direttrici salde e a improvvisi sprazzi di saggezza letteraria.
Le reazioni esageritissime alla droga che Patrick si spara in vena (e nel naso, e in gola, ecc ecc), seguono un percorso molto preciso, un crescendo spesso comico in cui gli improvvisi spazi di rallentamento e riflessione fra una crisi e l’altra acquistano maggior forza proprio perché diventano pause di silenzio all’interno del rumore: è qui che vediamo Patrick vacillare nel rimpianto per un uomo che odiava, ma che era pur sempre suo padre, e un padre a cui non ha detto ciò che avrebbe voluto dire. Ed è sempre qui, al termine di un’esilarante scena che coinvolge un’urna cineraria praticamente indistruttibile, che gli autori piazzano frasi capaci di riverberare a lungo, e di darci la misura dello spessore e del dolore del personaggio, tipo “Qual è il senso di avere una finestra, se non puoi usarla per buttarti di sotto?”
È un bene che, a meno di improvvisi cambi di rotta, Patrick Melrose sia una miniserie di soli cinque episodi. Il suo protagonista è un personaggio di straordinaria forza, ma che quasi sicuramente non ha la capacità di reggere intere stagioni, a meno di snaturarsi quasi subito. L’impressione, e la speranza direi, è quella di essere di fronte a una serie di durata e impatto fulminei, un punto d’eccellenza nella già ricca carriera di Benedict Cumberbatch, che potremmo ricordare a lungo nonostante la sua breve durata.
Magari ci riaggiorniamo alla fine.
Perché seguire Patrick Melrose: se siete fan di Benedict Cumberbatch, questa potrebbe essere la sua interpretazione più ricca e impressionante. E comunque la serie va anche oltre.
Perché mollare Patrick Melrose: se vi piacciono le storie ampie e articolate, è bene tenere a mente che Patrick Melrose va nell’altra direzione: storia semplice e messa in scena pazzoide.