9 Maggio 2018 11 commenti

Cobra Kai – A sorpresa, il seguito di Karate Kid è una gran bella serie tv di Diego Castelli

Le aspettative erano basse, e Cobra Kai si ha stupito alla grande

Copertina, Pilot

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Antefatto
Karate Kid è uno dei miei film preferiti dell’infanzia. E dico “dell’infanzia” perché mi vergogno un po’ a dire “di sempre”.
Se non sapete di cosa si sta parlando, le cose sono due: o siete davvero troppo giovani, oppure siete immeritevoli.
Ora non mi metto a fare tutta la storia di Karate Kid, non ne usciamo più. È necessario però ricordare in poche parole l’impatto che quel film ebbe sulla cultura pop dell’epoca, e su una generazione di ragazzini che, a fronte di una rappresentazione completamente irrealistica delle arti marziali e del loro insegnamento, nel film trovò un prezioso racconto di amicizia, onore, saggezza, e una filosofia di vita improntata al rispetto per gli altri ma anche e soprattutto per se stessi. Oltre, naturalmente, a uno dei mentori più teneri e affascinanti che il cinema abbia mai prodotto, ovvero il mitico maestro Miyagi, interpretato dal defunto Pat Morita che per la parte ottenne una nomination agli oscar.
Era un film che gli adulti di allora digerirono male per la sua semplicità e le sue componenti più folkloristiche, e che i ragazzi degli anni Ottanta ormai cresciuti possono anche trovare stucchevole o, semplicemente, “vecchio”. Ma faceva parte di un preciso modo – zuccheroso ma solido, paraculo ma commovente – di concepire il cinema per ragazzi, quello stesso modo che, ormai da un po’ di tempo, è diventato oggetto di una feroce nostalgia. Gli Stranger Things e i Ready Player One, per non parlare dei revival di mille mila vecchie serie tv, sono la cifra stilistica più vistosa di questi anni, e Karate Kid era e resta uno dei simboli di quella stagione cinematografica.

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Cobra Kai
Per quanto citato, parodiato e richiamato, Karate Kid non era ancora stato protagonista di un vero e proprio ritorno. E a sentire Ralph Macchio, protagonista dei primi tre film della saga (a cui se ne aggiunse un quarto, pauramente inferiore, con Hilary Swank), non sono mai mancate le richieste e i progetti, ma niente che riuscisse a convincere lui e il resto del cast a tornare davanti alla macchina da presa.
Cosa è cambiato allora con Cobra Kai, la nuova serie di Youtube Red che di Karate Kid è il seguito dichiarato? Be’, secondo Ralph Macchio e William Zabka, interpreti di Daniel LaRusso e del bullo Johnny Lawrence, a convincerli è stata la passione e la qualità nel progetto presentato dai creatori della serie Josh Heald, Jon Hurwitz, e Hayden Schlossberg.
Quando ancora non avevo visto il primo episodio, una punta di cinismo faceva anche pensare alla necessità, per Macchio e Zabka, di rilanciare una carriera ormai ammuffita, fatta di tante comparsate e piccole parti secondarie, fra qui recuperi ironici dei loro cavalli di battaglia (Zabka partecipò a diversi episodi di How I Met Your Mother in una versione parodiata di se stesso).
Né mancavano le perplessità, più in generale, sull’idea di riportare in vita una saga che aveva trovato una dimensione precisa e forse non replicabile in un periodo tutto particolare, in cui il tono favolistico del racconto metteva radici in un terreno fertile che oggi, in un mondo in cui la gente questiona pure quanti peli nel naso ha Thanos, non sarebbe più stato disponibile.

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La sorpresa, inaspettata e deliziosa, è che Cobra Kai è una bella serie. Ma bella sul serio. E lo è proprio nella misura in cui, non potendo riproporre gli stessi schemi e toni di allora, trova un difficile ma riuscitissimo equilibrio fra dramma e commedia, fra autoironia e voglia di raccontare qualcosa di nuovo.
A stupire, fin da subito, è il twist nella prospettiva: il protagonista vero e proprio di Cobra Kai non è Daniel, eroe indiscusso della saga originale, bensì Johnny, il bullo odioso (ma a sua volta vittima di un cattivo maestro) che Daniel sconfiggeva nella finale del torneo di karate. Quello, insomma, che si prendeva in faccia il calcio della celeberrima tecnica della gru.
Da quella sconfitta, ci dice Cobra Kai, Johnny non si è mai davvero risollevato: ha avuto un figlio ormai adolescente che praticamente non vede mai, si arrabatta con lavoretti precari da cui rischia sempre di essere licenziato, beve troppo e si crogiola colpevolmente nei ricordi di un lontano passato in cui era il più figo di tutti. È diventato quindi un personaggio malinconico, un po’ patetico, le cui spigolosità di oggi ci appaiono molto più giustificate di allora.
Allo stesso tempo, Daniel ha cavalcato l’onda della sua vecchia popolarità locale, e ha aperto un autosalone di discreto successo dando seguito alla passione per le auto che gli aveva instillato proprio il maestro Miyagi, ormai defunto.
E nel vedere Daniel usare il karate per promuovere la concessionaria, in spot televisivi dal sapore un po’ trash, ecco che si completa il giro: se Johnny merita ora un po’ di simpatia, Daniel è diventato uno spocchiosetto antipatico.

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Tutto sommato potrebbe già bastare così. Se Cobra Kai avesse nuovamente raccontato la storia di un Daniel sfigato che combatte i soprusi sarebbe stata semplicemente irricevibile, totalmente fuori tempo massimo. Il twist invece ci dà subito un motivo di curiosità, che però a sua volta si sarebbe potuto esaurire nello spazioi. della parodia.
Il bello arriva qui. Bastano pochissimi episodi, che cerco di spoilerare il meno possibile, per accorgersi che dietro Cobra Kai c’è un pensiero, un progetto che va oltre la nostalgia. Invece di forzare la mano per ricreare atmosfere ormai passate, gli autori aggiornano la saga, la fanno diventare realmente “adulta”, e danno ai loro personaggi uno spessore e una sfumatura di cui all’epoca, da ragazzini degli anni Ottanta, non avevano bisogno.
Ecco allora che Johnny è rimasto un po’ un bastardo, non è certo un simpaticone, ma si trova suo malgrado nella necessità di aiutare un giovane preso di mira dai bulli, come fece all’epoca Miyagi ai suoi danni. Questo significa che Johnny è “buono”? No, ma significa che è cresciuto, e per quanto incazzato e stanco sia, non è diventato il vero cattivo di Karate Kid, cioè il suo vecchio maestro Kreese. Quando decide di rifondare il Cobra Kai, dunque, lo fa con in testa gli insegnamenti “sbagliati”, smussati però da un carattere che, negli anni, ha capito certi errori.
Daniel, a sua volta, non è diventato semplicemente un coglione. Ha una famiglia a posto e, al contrario di tanti venditori di auto delle serie tv, non è un truffatore. Allo stesso tempo, privo della guida di Miyagi, non è riuscito a mantenere costante l’equilibrio acquisito da giovane, finendo col crearsi qualche problema con la figlia adolescente e con i concorrenti sul lavoro. Più in generale, ha mantenuto un’ombra della vecchia sfigaggine ma, come Johnny, l’ha modellata nella forma di un adulto pacato e gentile, ma con la testa sulle spalle.

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In Cobra Kai, come è facile immaginare, le storie di Johnny e Daniel tornano a incrociarsi, e la vecchia rivalità risorge da ceneri che si credevano ormai spente. Ne nascono equivoci e ripicche anche buffe, in cui si incastra anche la vita dei rispettivi figli, adolescenti come lo erano loro tanti anni fa.
Ma il successo degli sceneggiatori (per lo meno nella metà stagione che ho visto finora) sta nel fatto di non aver riproposto uno schema con un buono-buonissimo e un cattivo-cattivissimo: nel 2018, con i due personaggi ormai cinquantenni, è necessario scavare nella personalità di ognuno, scoprendo che tutti e due hanno i loro pregi e i loro difetti, caratteri diversi ma forse non più così incompatibili.
Con un tono leggero ma non troppo, commedioso ma venato di una palese malinconia, Cobra Kai diventa allora la versione adulta di Karate Kid, non solo nel senso di un invecchiamento dei protagonisti, ma proprio nella consapevolezza che il bianco e nero dell’adolescenza si sono trasformati in una serie di sfumature di grigio, che solo gli adulti (personaggi e spettatori) possono davvero riconoscere.

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Questo non significa che sia una serie perfetta o rivoluzionaria. L’equilibrio fra i vari toni del racconto è saldo, ma non sempre efficace, e ogni tanto ci sono botte di ironia o, al contrario, di retorica spicciola, che suonano forzate e un po’ ridicole. Allo stesso tempo, dal punto di vista visivo la serie ha poco di nuovo da offrire, e rimane quasi sempre su un livello di generale ordinarietà, eccezion fatta per l’uso molto preciso degli spezzoni del vecchio film, che compongono ricordi e brevi flashback che ci colpiscono con la forza della loro pasta ingiallita e rugosa, con quell’atmosfera da vecchia estate d’infanzia che contrasta magnificamente con l’immagine pulita e un po’ fredda delle moderne tecniche di ripresa.
Ma se conoscete Karate Kid, se avete amato il film che era e ciò che rappresentava, allora Cobra Kai vi stupirà. Semplicemente perché è più intelligente, ragionata e stratificata di quello che ci aspettavamo. Perché si prende la briga di far crescere i propri personaggi, dandoci l’impressione di una realtà vertiginosa: Daniel e Johnny non sono simboli cristallizzati nel tempo, creature mitiche che possiamo solo guardare con nostalgia, bensì persone vere, concrete, che in gioventù hanno imparato qualcosa della vita, ma che come tutti noi hanno dimenticato qualcosa, e altro devono ancora imparare.
Se tutti i revival, reboot e sequel fossero così, dovrei davvero licenziarmi e passare la vita a guardare serie tv.
Perché seguire Cobra Kai: è un seguito splendidamente concepito, semplice nello sviluppo ma dotato di uno spessore francamente imprevedibile.
Perché mollare Cobra Kai: la sua bellezza nasce prima di tutto dall’accostamento con ciò che era la saga di Karate Kid. Se non la amate e/o conoscete, Cobra Kai perderà metà del suo appeal.



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