Counterpart season finale: quelle serie che ti impappinano piacevolmente il cervello di Diego Castelli
La prima stagione di Counterpart è una delle cose seriali migliori degli ultimi tempi
SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE
Ma quanto c’è piaciuta Counterpart. Una serie difficile eh, lenta e silenziosa, grigia e cupa, spesso intricata. Pure una serie di nicchia, che quindi non fa scattare quella bramosia da “la stanno guardando tutti, devo mettermi in pari”. Countepart no, bisognava sceglierla, e sceglierla con un certo impegno. Però questi dieci episodi ci hanno ripagato alla grande.
Ai tempi del pilot si parlava di come l’improvvisa divisione fra due diverse dimensioni della realtà, con conseguente nascita di una diplomazia e di uno spionaggio fra le due, fosse lo strumento per introdurre il tema dell’identità personale, e di cosa la influenza.
Naturalmente questo è rimasto uno dei temi centrali della serie, e ha portato a conseguenze anche prevedibili, ma non per questo meno potenti. Per esempio, era previsto e prevedibile che i due Howard – uno così dimesso e tenerone, l’altro pratico e perfino freddo – si fondessero e mescolassero fino a sostituirsi l’uno all’altro, cosa che puntualmente succede: quella che inizia come un’operazione spionistica (“tu vai di là a fare certe cose, io vengo di qua a farne altre”) diventa la base per un vero e proprio cambiamento della personalità. In maniera lenta e costante, ma sempre coerente, Howard 1 scopre l’utilità di una maggiore durezza d’animo, che gli consente di proteggere le persone che ama (la violenza perpetrata su Pope nel finale è il punto di non ritorno in cui Howard 1 diventa il 2), mentre dall’altra parte Howard 2 scopre di apprezzare la vita tranquilla della sua controparte, che all’inizio aveva dileggiato.
Si arriva così a un finale inquietante in cui, nell’ultimissima scena, Howard 2 si trova al capezzale della moglie del suo “gemello” quando questa si sveglia, e noi rimaniamo col dubbio che lei si sia accorta o meno di chi ha davanti (perché Emily intratteneva rapporti con entrambi, seppur di tenore diverso).
Lo stesso tema dell’identità, e di cosa significa essere se stessi, attraversa tutta la serie e coinvolge anche gli altri personaggi, prima fra tutti Clare, alla cui infanzia e adolescenza è stato dedicato uno degli episodi migliori di questa prima stagione.
Anche lei è protagonista/vittima di un percorso che la porta a scoprire la vita di un’altra se stessa, e a immergersi al suo interno fino a non trovare più motivo per considerarsi un agente dell’altro lato. A fine stagione, l’amore che prova per il marito e soprattutto per la figlia appaiono sinceri e onesti, anche se complicati, e di nuovo ci si trova di fronte alla domanda fondamentale: chi siamo noi? Cosa ci rende quello che siamo? E soprattutto, se la nostra vita fosse andata diversamente, potremmo dire di essere ancora “noi”?
Qualche risposta in più sembra avercela Nadia, che in una dimensione è una musicista di talento, mentre nell’altra una killer sull’orlo della depressione. Nel finale di stagione l’unica Nadia sopravvissuta non ha dubbi nel dire che quella morta era la “vera Nadia”. Lo dice in un momento di sconforto, è vero, ma ci instilla comunque le stesse domande: perché quella era la Nadia vera? Quali sono gli elementi della sua vita che possano definirla come più vera rispetto a quella dell’altra? La famiglia, gli amici, la felicità? Stiamo dicendo che gli infelici vivono una vita meno degna degli altri? Domande toste, quesiti profondi che la serie lascia piovere sullo spettatore senza dare risposte certe, perché risposte certe non ce n’è per nessuno, a parte forse per qualche life coach che ti insegna ad apprezzare il profumo dei fiori e poi si spara l’eroina nei piedi.
È un tema, quello dell’identità, che la serie presenta come un’arma a doppio taglio: da una parte la fascinazione di una versione migliore di se stessi, con la consapevolezza di poter diventare quella versione (lo cantilena anche il tizio che muore al confine dopo la sparatoria); dall’altra l’inquietudine che deriva da un’identità così fluida e modificabile, da suggerire perfino la possibilità che una vera identità nemmeno esista, e che sia solo un costrutto dell’ambiente in cui si nasce e si cresce.
Un bivio, questo, che una serie come Counterpart gestisce soprattutto dal punto di vista spaziale, costruendo due diversi mondi con due diversi set di umani, ognuno guidato da una vita diversa ma con lo stesso DNA rispetto a quello del suo doppio. L’immaginario è chiaramente quello della Guerra Fredda, in una Berlino nuovamente divisa fra un Occidente tecnologicamente avanzato e in qualche modo ingenuo, e un’europa dell’est povera e oscurantista, avvelenata dal rancore per i ricchi vicini. Ma il riferimento può andare oltre: se una volta Berlino era il simbolo e il centro geografico della Guerra Fredda, ora è il centro decisionale delle questioni europee, e fra le questioni europee più importanti c’è quella relativa all’immigrazione e ai flussi di popolazioni che si spostano dai paesi poveri e in guerra a quelli più ricchi di opportunità.
Nel mettere in scena l’incontro e lo scontro fra due mondi geneticamente identici, ma così diversi nella prassi quotidiana, gli autori di Counterpart intavolano anche un discorso sul rapporto fra i popoli, mettendo in scena conflitti, incomprensioni e perfino terrorismo, che nascono principalmente dall’ignoranza reciproca, dall’incapacità di accettare l’altro per quello che è, senza avvolgerlo di pregiudizi. Il gioco delle controparti, in questo senso, diventa allora il simbolo di un’uguaglianza sostanziale, ma che non ci impedisce di ammazzarci fra noi, per motivi probabilmente futili e comunque oscuri ai più, conosciuti solo da una “Direzione” che nel finale non si può vedere, perché si nasconde dietro strani emissari e macchinari futuribili, mentre le pedine del gioco cercano di trovare una pace che gli viene costantemente proibita.
Se trovate tutte queste cose, con la stessa solidità, in un’altra serie, vi prego di segnalarcela perché vogliamo guardare anche quella.