Roseanne: il ritorno della fu Pappa e Ciccia, invecchiata ma ancora sul pezzo di Diego Castelli
A vent’anni di distanza un altro ritorno seriale, questa volta di una serie che ha fatto storia almeno in due modi diversi
Questi che stiamo vivendo, che ci piaccia o meno, sono gli anni della nostalgia, dei remake, dei reboot, dei sequel, degli omaggi. Il mondo delle serie tv ha riesumato X-Files, Full House, Twin Peaks, Will & Grace, Gilmore Girls, e ha cosparso di lacrimosi sguardi al passato anche serie formalmente “nuove” come Stranger Things.
Ognuno può reagire come gli pare a questa ventata di archeologia, dal rifiuto categorico all’annusatina possibilista, fino all’entusiasmo incondizionato. Naturalmente dipende anche dalla serie di cui si ragiona, e devo ammettere che quando si è parlato per la prima volta del revival di Roseanne, appartenente a un passato così lontano che qui la conosciamo quasi solo col titolo italiano di Pappa e Ciccia, ho subito cominciato a pendere dalla parte dell’entusiasmo.
Quand’ero ragazzo – signora mia qui una volta era tutta campagna – Pappa e Ciccia era una delle mie sitcom preferite. Certo, la guardavamo con meno cognizione di causa rispetto a oggi, e accettavamo senza problemi, perché credevamo che fosse davvero così, anche il doppiaggio italiano che aveva trasformato la protagonista in una terruncella italiana che soprannominava il figlio “piccirillo”.
Allo stesso tempo, anche da qui riuscivamo a percepire quello che, dal 1988 al 1997, Roseanne aveva rappresentato nel mondo delle comedy televisive americane: era stata l’anti-Robinson.
Se la banda di Bill Cosby – che nemmeno si chiamava “Robinson”, ma vabbè – era una specie di Isola-che-non-c’è in cui una famiglia afroamericana benestante aveva come unici problemi piccole beghe scolastiche e buffi dialoghi con la figlia quinquenne, Roseanne rappresentava l’altra faccia della medaglia americana, quella del proletariato bianco e un po’ ignorante, sempre alle prese con i conti da far quadrare e figli non troppo svegli indirizzati verso vite non proprio edificanti. E funzionava perché, unendo un 90% di commedia e un 10% di dramma, Roseanne proponeva al suo pubblico la comicità più popolare (anzi, popolana) che esista: quella che fa ridere dei propri guai.
Ritornando a venti anni di distanza, una resurrezione seconda solo a quella di Twin Peaks, Roseanne non può contare sullo stesso impatto culturale di allora. Nessuno di questi remake e sequel può ambire a quel tipo di risultato. Certi successi dipendono anche dal contesto mediale e storico in cui nascono, e questa regola vale anche per Pappa e Ciccia, che si trova a rinascere in un mondo seriale ipertrofico e densissimo, in cui possiamo scegliere di guardare ogni tipo umano esistente, dal più elegante e raffinato al più becero e tamarro.
Allo stesso tempo, chi decide di tornare può farlo con la dignità di una creatività rinnovata e ancora funzionante, oppure con il bieco opportunismo di chi cerca una facile scorciatoia per non doversi inventare niente. Fortunatamente, Roseanne sembra appartenere al primo gruppo.
Certo, Rosie e Dan e sono invecchiati, e al primo colpo la voglia di bollarla come l’ennesima operazione commerciale ti viene. Guardando per intero i primi due episodi, però, ci si accorge che dietro c’è un pensiero, il tentativo di un adattamento che abbia ancora un senso.
Per esempio c’è ancora la voglia di parlare di attualità, dall’America trumpiana agli uteri in affitto, e non è affatto detto (anzi) che sia fuori moda il tema delle famiglie povere che sguazzano in vite di merda da cui uscire con una battuta al veleno.
C’è il tentativo, riuscito, di dare una nuova collocazione narrativa ai vecchi personaggi: Dan e Rosie diventati nonni; Darlene con due figli a carico (una è Emma Kenney di Shameless, che di famiglie disastrate ne sa qualcosa); Becky (Alicia Goranson) pronta ad affittare il suo utero a una tizia interpretata da quella che un tempo fu la “seconda Becky”, cioè Sarah Chalke; D.J. (Michael Fishman, così incapace che gli danno due battute in croce in due episodi) che è stato in Siria con l’esercito e ha una figlia di colore; il secondo figlio di Darlene a cui piace vestirsi da femmina e scatena reazioni non banali in una famiglia tradizionalista in cui l’accettazione del diverso non è un processo semplice e ovvio come in tante serie orgogliosamente progressiste, ma è invece un percorso che parte dall’essere fondamentalmente brave persone e passa attraverso una crescita e un apprendimento (perché così succede, anche queste sono cose che si imparano e si insegnano).
E poi naturalmente c’è zia Jackie, la mitica (e candidata all’oscar) Laurie Metcalf, che non ha perso un briciolo della chimica che aveva con la protagonista Roseanna Barr.
Ultima, ma non meno importante, c’è una scrittura che regge ancora il peso degli anni. Passato il primo momento di sgomento nel constatare quanto Sara Gilbert sia invecchiata peggio di Alicia Goranson, riprendere confidenza con questi personaggi è sorprendentemente facile, perché il loro insopprimibile cinisco, fondamentale arma di difesa contro la sfiga, ha ancora la forza per essere diverso e personale, anche se in questi vent’anni ha fatto tanti proseliti e non è più un unicum nel panorama televisivo.
L’impressione, dunque, è che Roseanne possa stare dalla parte giusta dei sequel, ammesso che ne esista una. Quella cioè in cui non si prova imbarazzo di fronte a personaggi invecchiati male in serie invecchiate peggio, ma anzi si ha la sensazione di aver ritrovato dei vecchi amici, che può ancora valere la pena di ascoltare.
La questione del finale
Aspetta, non andate via, c’è un’ultima questione da affrontare. L’ho tenuta per la fine perché è curiosa ma non influenza direttamente il giudizio sulla serie, a meno che non siate i soliti puntigliosi rompicoglioni.
Già perché il ritorno di Roseanne ha posto un problema serio, legato a come la serie originale era terminata. Noi qui non ce lo ricordiamo, e nemmeno potremmo, ma quello di Roseanne è tuttora ricordato come uno dei finali più spiazzanti della serialità americana tutta.
Dopo diverse stagioni di ottimi ascolti, Roseanne cominciò ad arrancare e si decise di chiuderla con la nona stagione. La Barr, produttrice e vera anima dello show formalmente creato da Matt Williams, decise di concedere alla famiglia Conner una vincita alla lotteria, e di far sopravvivere Dan a un attacco di cuore. Ne seguì una stagione tutta particolare, piena di buffi voli pindarici con parodie di altri show e scene un po’ surreali, che vennero percepite come “strane” già durante la messa in onda. Poi, alla fine, il colpo di teatro: pochi minuti di silenzio e voce fuori campo, in cui Roseanne svelava che l’ultima stagione era una menzogna, o meglio un racconto scritto dalla protagonista stessa, decisa a diventare autrice letteraria. Una versione edulcorata del loro ultimo, vero anno famigliare, in cui Dan era effettivamente morto e in cui nessuno aveva vinto alcuna lotteria.
Se non ve lo ricordate tranquilli, non avete alcun problema di memoria: gli ultimi due episodi della serie, quelli contenenti il twist, non sono mai andati in onda in Italia, anche se la nona stagione, fino all’episodio 22, era stata effettivamente trasmessa. Sono andato a chiederne conto agli amici di Italia 1, che lavorano alla fine del corridoio dove lavoro io, ma non ne sapevano niente, perché si parla del 2002 e da allora c’è stato un ricambio totale della redazione. Chissà se mai lo scoprirò (intanto, se cercate, gli episodi finali si trovano su youtube).
Stante così le cose, ovviamente, si è dovuto forzare la mano con il sequel, che a questo punto assomiglia un po’ di più a un reboot: Dan non è morto (e ovviamente ci scherza su), Roseanne non è una scrittrice, meno ancora Darlene, che sembrava dover seguire quelle orme.
Qualcuno storcerà il naso e ci sta, anche se naturalmente non c’è alcuna legge che vieti di fare quello che si vuole coi prodotti di fantasia. E magari non era necessario cassare un prodotto nuovo e pure divertente in nome di un finale di vent’anni fa. Quello che davvero ci interessa è vedere quanto regge su questi buoni livelli. Io ci spero.