22 Febbraio 2018 40 commenti

Troy: Fall of a City. La serie tv per cui Omero si rivolta nella tomba. di Diego Castelli

La nuova serie di BBC e Netflix è un epic fantasy di scarsissimo spessore

Copertina, Pilot

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Quando a un serialminder dici “c’è una nuova miniserie co-prodotta da BBC e Netflix”, quello drizza le antenne. Se poi aggiungi “parla della Guerra di Troia, una storia che funziona da quasi tremila anni”, il serialminder molla tutto, prende i pop corn e si mette in poltrona.
E qui comincia a guardare Troy: Fall of a City, che dopo il pilot finisce dritta dritta all’ultimo posto provvisorio nella nostra classifica delle migliori (e peggiori) serie dell’anno.
Ma come? Cos’è successo? Pure il nome del principale sceneggiatore faceva ben sperare, quel David Farr che ha firmato The Night Manager (che a me comunque non è piaciuto particolarmente, questo va detto) ma anche l’episodio “Impossible Planet” di Philip K. Dick’s Electric Dreams.

Eppure… eppure qualcosa non ha funzionato. Incentrato quasi totalmente sul nascente amore fra Paride ed Elena, frutto dell’accordo fra Afrodite e lo stesso Paride in cambio del celeberrimo pomo d’oro, il pilot di Troy: Fall of a City cerca di delineare lo scenario politico, romantico, militare e divino in cui scoppierà la lunga guerra di Troia, rimanendo su un registro (più che legittimo) di puro fantasy, visto che gli dèi ci sono e si vedono.
I problemi però iniziano subito, a pochissimi minuti dall’inizio dell’episodio: il buon Paride, contadinotto vagamente ninfomane che tromba tutto quello che vede, viene fermato in un bosco e costretto a fare da giudice in una disputa soprannaturale, dovendo decidere chi sia la più bella fra le tre dee Era, Atena e Afrodite.
Già qui è tutto sbagliato, tutto banale, tutto posticcio. Non c’è alcuna ricerca né dialogica, né tantomeno visiva, che riesca ad allontanare questi minuti da una qualunque puntata del buon vecchio Hercules, ed è immediata l’impressione di trovarsi di fronte a una recita scolastica.

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Sarà bene chiarire che non ho alcuna intenzione di fare confronti con l’Iliade. Non perché non si possano fare o perché non possa essere divertente farli, ma sapete che qui a Serial Minds seguiamo un approccio diverso, che prima di tutto analizza i prodotti per quello che sono, non in base al posto da cui provengono. Quindi poco ci importa che Troy: Fall of a City venga da uno dei poemi più famosi della storia dell’uomo, non è su quello che ci interessa fare un paragone. Ci interessa fare un paragone fra la serie il concetto di decenza, che purtroppo spesso non vanno di pari passo.

Dopo la scenetta del pomo d’oro, Paride va in città e scopre di essere il figlio disperso del re Priamo, che lo riconosce tramite una voglia sulla spalla e lo abbraccia commosso. Altra scena di scarsissimo spessore, troppo rapida, quasi ridicola per la velocità con cui Paride passa da contadino spiantato e super-principe, come se non avessero a disposizione otto episodi ma solo venti minuti.
Da lì in poi non si salva quasi niente: i dialoghi sono banalissimi e paurosamente didascalici, sempre tesi a consegnare allo spettatore le informazioni necessarie nel modo più piatto e incolore possibile. Nessuno chiede di scrivere una sceneggiatura in versi, però magari fare uno sforzo per qualcosa di più interessante…
Poco da segnalare anche sul fronte visivo: per quanto la serie possa godere di location piuttosto ampie, e le primissime inquadrature del pilot facciano sperare in una specie di Game of Thrones all’inglese, ci si accorge presto che gli attori si muovono in spazi per lo più vuoti, fintamente illuminati da una luce omogenea a dispetto della presenza delle sole torce e non delle luci al neon.
Ancora una volta, nessuno pretende che una serie tv usi la pura luce ambientale alla Barry Lindon. Ma quando una messa in scena rende lo spettatore cosciente dei trucchi con cui è costruita, significa che li sta usando male.

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Col procedere del pilot, Paride viene mandato a Sparta in missione diplomatica, e qui incontra finalmente Elena, al momento moglie di Menelao, con cui scocca un’immediata scintilla che noi sappiamo essere frutto dei poteri di Afrodite.
Vale la pena sottolineare che Elena dovrebbe essere la donna più bella del mondo, e per carità, la sua interprete Bella Dayne brutta non è (gli autori ci tengono anche a farci sapere che ha un robusto paio di tette spartane). Peccato che al momento del suo primo ingresso sulla scena sia incastrata in un abito ridicolo che la fa sembrare una gallina. Certo, poi migliora, ma ormai il danno è fatto.
Dicevamo: Menelao, durante un dialogo che sembra scritto da Moccia, si rende subito conto che Paride è un birbante e guarda la moglie con concupiscenza, così per tenerlo buono gli offre in sposa la figlia sfigata, in nome dei buoni rapporti fra Sparta e Troia. Paride per un po’ gioca con la ragazzina, ma è chiaro che ha già in mente la madre. Menelao pare esserne sempre più conscio, dico “pare” perché alla notizia della morte del padre decide comunque di andarsene lasciando lì Paride, in modo che possa conoscersi bene con la figlia. Scusa Menelao, ho creduto fossi un fine calcolatore, e invece sei solo un povero imbecille (e cornuto).

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Ovviamente, appena Menelao esce dalla porta Paride ed Elena si ammucchiano che è un piacere.
Il pilot finisce più o meno qui, col vago indizio del fatto che Elena ha seguito Paride al momento della sua partenza.
Nei prossimi episodi, in cui la storia d’amore fra i due manterrà comunque un ruolo importante (più importante rispetto all’originale diciamo), vedremo Agamennone, fratello di Menelao, partire per Troia alla ricerca della cognata, con la situazione che precipiterà verso un assedio lunghissimo e sanguinoso, in cui i puristi del poema avranno di che lamentarsi più o meno a ogni scena (basta dire che per Achille hanno scelto un attore di colore, e siamo a posto).
L’impressione generale, comunque, è quella di generale pochezza. Un po’ perché scrivere una miniserie sulla Guerra di Troia (che si chiama “Troia: la caduta di una città”) e poi parlare soprattutto di bizze amorose, mi pare quasi uno spreco di carta e di pilot; ma soprattutto perché, abituati come siamo a fantasy che cercano strade nuove e personali (non solo i Game of Thrones, metteteci pure i Britannia della situazione, non riuscitissimo ma comunque coraggioso), è difficile accettare una storiella così raffazzonata. Non c’è nulla, in Troy: Fall of a City, che faccia risuonare l’epica millenaria di Omero, ma la cosa più grave è che nemmeno ci provano.

Gente in pigiama che parla di cose banali e fa vedere un po’ di culi e tette e per attirare l’attenzione. Al momento Troy: Fall of a City è questa roba qua. Magari guardo la seconda solo per senso del dovere, e perché sono comunque curioso di vedere Achille. Ma il dito mi trema sul tasto CANC.

Perché seguire Troy: Fall of a City: se la prospettiva di una serie tratta da Omero è per voi troppo irresistibile, a prescindere da tutto.
Perché mollare Troy: Fall of a City: il primo episodio è semplicemente brutto e banale, e puzza mortalmente di occasione sprecata.

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