Philip K. Dick’s Electric Dreams: Il futuro non è quello di una volta di Antonio Firmani
Un punto finale sulla serie di Channel 4, che chiude la sua prima stagione di sogni fantascientifici
Io non so quanti di voi abbiano mai letto qualcosa di Philip K. Dick, ma comunque saprete che stiamo parlando di uno dei padri fondatori della fantascienza, uno dei più grandi, forse il più grande di tutti (per certi versi) nel genere. Un visionario che, come succede spesso a molte delle menti illuminate, non ha ottenuto il successo meritato in vita, ma ha raggiunto la vera ribalta solo dopo l’infarto del 1982 che mise fine alla sua esistenza. È molto probabile che conosciate Philip K Dick anche vostro malgrado: è uno degli autori più “adattati” da Hollywood, secondo forse solo a Stephen King, e quindi potreste avere visto qualcosa di ispirato a lui senza neanche saperlo: da Blade Runner a Minority Report passando per Total Recall, Paycheck, Screamers e il più recente adattamento televisivo The Man In The High Castle.
Lo scorso 17 settembre su Channel 4 (in collaborazione con Sony Pictures Television) ha debuttato, con i primi sei episodi, Philip K. Dick’s Electric Dreams, serie antologica tratta (come del resto suggerisce il titolo) dai racconti dell’autore statunitense. Ne avevamo parlato anche qui su Serial Minds, avanzando qualche perplessità ma esprimendoci tutto sommato in maniera positiva.
Channel 4 è l’emettente britannica sulla quale aveva debuttato pure Black Mirror, salvo poi essere acquisita da Netflix dalla terza stagione. Il 12 gennaio poi, la stessa emittente britannica ha messo in onda i restanti quattro episodi chiudendo così la season 1. I diritti per la distribuzione di questa prima stagione negli U.S.A. e nel resto del mondo (Italia compresa) sono stati acquisiti da Amazon Prime Video (quindi la trovate lì). La serie è ideata e prodotta da Micheal Dinner e soprattutto da Ronald D. Moore (Battlestar Galattica, Outlander).
Non c’è grossa disparità fra gli episodi, tutti e dieci mantengono un livello medio-alto (chi più, chi meno), complice anche il fatto che sia davanti alla macchina da presa che dietro c’è una sfilza di nomi di grosso calibro. Steve Buscemi, Bryan Cranston (che è anche uno degli executive producer), Anna Paquin, Terrence Howard, Richard Madden (il Robb Stark di Game Of Thrones), Vera Farmiga, Greg Kinnear, guidano la parata di star disseminate qua e là nei dieci episodi. Marc Munden (Utopia), Alan Taylor, Tom Harper (Misfits e Peaky Blinders), Jack Thorne (Skins) e gli stessi showrunner Moore e Dinner che firmano rispettivamente “Real Life” e “The father thing” sono invece alcuni dei nomi illustri dietro la macchina da presa.
Vuoi per le tematiche trattate, vuoi per i toni usati nel trattarle, o ancora per la semplice rete di provenienza, l’accostamento a Black Mirror è inevitabile e purtroppo sconveniente. Electric Dreams è una serie di qualità, questo sia chiaro, ma paga a caro prezzo il fatto di essere uscita in un mondo (e in un tempo) in cui non solo già esiste Black Mirror, ma in cui le tematiche dickiane sono già state ampiamente sfruttate, ampliate e per certi versi perfino superate (scusate la bestemmia) da autori di grosso calibro, sia sul piccolo che sul grande schermo.
Corre quasi il rischio di generare un corto circuito: molta roba che vediamo oggi è molto più dickiana di Electric Dreams, è più dickiana quindi dello stesso Dick. La sensazione forte è che Channel 4 abbia provato (legittimamente, per carità) a rifare Black Mirror dopo esserne rimasta orfana. Il problema è che l’individualismo, il concetto di identità, la degenerazione nell’uso della tecnologia, i futuri distopici sono tutti temi e scenari che proprio autori come Brooker di Black Mirror e non solo hanno ormai ingurgitato, digerito e svecchiato.
Lasciano dunque perplessi alcuni episodi come “Impossible Planet” (probabilmente l’episodio più debole dell’antologia), perché ad oggi il ritorno su una Terra al collasso venendo da mondi lontani non tiene più lo spettatore incollato alla sedia; o altri come “Safe and Sound” o “Kill All Others” a sfondo politico, perché di totalitarismi deliranti ne abbiamo visti a milioni. Tutto molto 80’s, ma non 80’s alla Stranger Things, 80’s nel senso (e mi sanguina il cuore a dirlo) di vecchio. Altri episodi ancora sarebbero veramente belli come “Crazy Diamond” se di déjavù non avessimo già sentito parlare in Matrix (e non solo); o come “The Hood Maker”, se non avessimo già visto Terminator.
Molti episodi mancano totalmente di quell’angoscia che molte perle antologiche di Black Mirror sanno invece trasmettere (mi viene in mente, giusto per citare uno degli ultimi, “Arkangel”, diretto da Jodie Foster).
Il trick narrativo in molte puntate è sempre lo stesso: instillare un dubbio nello spettatore all’inizio del secondo atto (vedi “Real life” o “Human is”) e poi tirare dritto fino alla fine con lo stesso dubbio. Non è un caso se “The Commuter”, in cui futuri distopici, totalitarismi e controllo della mente sono lasciati un attimo da parte, risulta essere uno degli episodi migliori o per lo meno più freschi. Appena l’antologia abbandona il suo fil rouge viene fuori qualcosa di molto toccante (grazie anche a un bravissimo Timothy Spall in questo caso), ma per l’appunto poco dickiano.
L’eccezione vera è forse “Autofac”, dove i temi (questi sì molto dickiani) dell’intelligenza artificiale e della robotica, vengono spinti oltre un estremo in cui non esiste più nemmeno il confronto con l’umanità, che a quel punto è ormai svanita e in qualche modo ricostruita dalla stessa robotica che l’aveva dimenticata.
E allora, per riassumere e concludere, Philip K. Dick’s Electric Dreams rimane una serie ben fatta, di qualità, che si segue con interesse e partecipazione, ma che paga il dazio di essere arrivata troppo tardi. Dieci anni fa sarebbe forse stata rivoluzionaria nel mondo seriale, mentre oggi paga il fatto che il futuro, come dice il piccolo Charlie in “Father Thing”: “Non è quello di una volta”.