Vikings 5 season premiere: c’è ancora molto da raccontare di Diego Castelli
Un doppio episodio di Vikings che deve fare i conti con un passato ingombrante, ma che sembra in grado di cavarsela ancora egregiamente
SPOILER SULLA 5×01-02
L’anno scorso, in occasione del finale di stagione di Vikings, ci eravamo lasciati con una domanda semplice ma fondamentale: e adesso?
Venivamo dalla stagione della morte di Ragnar, protagonista quasi assoluto della serie, faro attorno al quale far navigare una narrazione che anche in sua assenza era popolata quasi esclusivamente da figli di Ragnar, mogli di Ragnar, amici, alleati e avversari di Ragnar.
Se non avete la pazienza di rileggere quella recensione (e smollatelo sto clic sant’Iddio…) quello che ci eravamo detti era abbastanza scontato: ok che Ragnar non è storicamente la figura più importante di questa saga vichinga, ma è impossibile negare che, nel qui e ora della fruizione televisiva, la sua dipartita poteva rappresentare un colpo assai duro per la serie.
A fronte della doppia premiere della quinta stagione si può tirare un sincero, anche se ancora non definitivo, sospiro di sollievo. Vikings è ancora una serie dagli alti valori produttivi, che giganteggia coi suoi costumi, le sue battaglie, i suoi paesaggi mozzafiato, anche a fronte di qualche leggero scivolone qui e là, che si porta dietro fin dal pilot (la visione divina e super-computerizzata di Floki alla cascata ce la potevano pure risparmiare, ma fa niente).
Ma quello che conta è che Michael Hirst non sembra aver perso le redini del suo discorso, che continua a portare avanti con precisa coerenza.
Solo ora che il vecchio re è definitivamente fuori da giochi ci rendiamo davvero conto della saggezza degli sceneggiatori, che mentre ci raccontavano l’evoluzione del personaggio principale preparavano il terreno affinché la storia potesse funzionare anche senza di lui.
Che il percorso di Ragnar sia ancora il più rilevante in Vikings è difficilmente contestabile. Partito come saccheggiatore e avventuriero, diventato fine politico e stratega, assurto infine a livello di mistico (anti)religioso, in tre stagioni e mezza Ragnar ha completato una parabola vertiginosa: al di là dei dettagli concreti della trama, Hirst l’ha lentamente estratto dalla pozza mitologica in cui si trovava all’inizio, per cucirgli addosso il ruolo di eroe estremamente moderno, capace di guardare con spirito critico e realista (quando non apertamente cinico) un mondo politico e religioso di cui si sentiva sempre meno partecipe, troppo esperto delle cose del mondo per non riconoscere il vero cuore degli uomini, al di là delle preghiere di rito e dei proclami della retorica. Di fatto, Ragnar è uscito di scena quando ormai non aveva più nulla da spartire con il mondo in cui era costretto ad esistere.
Ma mentre noi guardavamo questa evoluzione, intorno a Ragnar succedevano parecchie cose. La prima delle quali, forse, era la crescita di Ivar, uno dei tanti figli del vecchio sovrano, che pur non eccellendo in atletismo (mi si perdoni la battuta) condivideva con Ragnar la fine intelligenza strategica. Con l’aggiunta di un Jonathan Rhys-Meyers, dei propositi di vendetta e conquista della prole di Ragnar, e dei “problemi a casa” di Lagertha e compagnia, era già stata messa abbastanza carne al fuoco per tenere viva la grigliata anche quando la portata principale era stata ormai spolpata via.
Proprio per questo, nonostante lo spettro del Lothbrok continui ad aleggiare sulle teste dei protagonisti e degli spettatori, la premiere della quinta stagione è stata ricca di avvenimenti, fra cui la feroce conquista di York, che in una delle scene più cruente e spietate dell’intera serie ci ricorda che stiamo ancora guardando uno show sui vichinghi, la cui fame di terra e conquista non è stata per nulla indebolita dall’approccio integrato del vecchio condottiero.
Dopo questi ottantacinque minuti circa, insomma, siamo ancora interessati a sapere cosa succederà, piacevolmente sorpresi dal fatto che l’addio a Ragnar non abbia lasciato un buco narrativo troppo vistoso, pronti a lasciarci nuovamente trasportare dai venti di guerra e dalla passione per l’intrigo e il sotterfugio.
Il vero (e consapevolissimo) buco lasciato da Ragnar è invece un buco etico. La nuova stagione si sta lentamente raccogliendo attorno a due diversi scontri, quello fra Ivar e Heahmund da una parte, e quello fra Lagertha e Harold dall’altra. Quattro personaggi per due duelli piuttosto diversi, caratterizzati però da un elemento in comune: tutti i protagonisti sono dei figli di puttana.
Se Ragnar era il vichingo spietato ma onorevole, che nel corso degli anni aveva imparato ad abbracciare culture diverse dalla propria e ad amare e rispettare compagni di viaggio radicalmente diversi da lui, la sua uscita di scena ci lascia immersi in uno scenario in cui identificare il classico “buono” è davvero difficile: non lo è Heahmund, fondamentalista cristiano che già non sarebbe simpatico a prescindere, e che con la faccia di Rhys-Meyers non può ambire ad altro che non sia un fascinoso viscidume; non lo è Ivar, che ha sì ereditato la scaltrezza paterna, ma allo stesso tempo non mostra alcuna pietà per gli indifesi e non perde occasione per esibire quel suo sguardo dal basso in alto, inquietante come il Joker; non è buono Harold, e direi che non serve spiegare perché; e non è buona nemmeno Lagertha, che certo è quella più avvezza alla compassione e all’amore per la sua gente, ma che allo stesso tempo mostra un feroce attaccamento al potere.
Hirst ci dice insomma che il percorso spiritual-culturale di Ragnar resta il viaggio di un singolo, una luce solitaria a cui segue un periodo probabilmente più buio, in cui la speranza di reciproca comprensione è al momento schiacciata dall’ambizione e dalla violenza. Niente male come specchio di un mondo contemporaneo in cui lo scontro fra culture, genti e razze è quanto mai acceso, e che trova così riflesso in un passato vichingo in cui – tutto il mondo è paese – ogni popolo si sente superiore al suo vicino semplicemente perché sì.
In tutto questo, il serialminder più affezionato e nostalgico, quello che senza Ragnar non sa più che pesci prendere, è il povero Floki. Il costruttore di navi, compagno di tante battaglie, aveva già dimostrato una certa difficoltà (eufemismo) ad accettare i cambiamenti dell’amico di sempre. Impossibilitato a seguire Ragnar nel suo percorso conoscitivo, Floki era rimasto il vichingo orgoglioso, legato alle divinità nordiche, incapace di scendere a patti con i mondi scoperti oltre il mare.
Meravigliosamente contraddittorio (è l’uomo che costruisce le imbarcazioni con cui raggiungere nuovi mondi, ma è anche quello incapace di conoscerli davvero), Floki diventa il simbolo della difficoltà di ogni cambiamento, un eroe tragico sballottato in un mondo in continuo mutamento, perennemente cristallizzato nel ruolo che crede essere stato scelto per lui dal Destino e, per questo, condannato a essere lasciato indietro da una Storia che non guarda in faccia nessuno, specie quelli che sperano non cambi mai niente.
Soprattutto, Floki è a sua volta portatore di quel pessimismo che sembra infettare tutta la stagione: lascia la sua casa al grido di “qui non c’è più niente per me”, sperando così che gli dèi possano trovargli un nuovo posto che abbia senso per lui, ma in realtà si scontra con la dura realtà di un mare freddo e deserto, fatto apposta per frustrare le speranze dei sognatori come lui.
Certo, sul finale si entusiasma pensando di essere finito ad Asgard, ma sospettiamo che presto di accorgerà di essere semplicemente approdato in Islanda. Che per carità, bellissimo posto, ma non esattamente la dimora degli dèi.
Non sappiamo cosa ci riserverà il prossimo futuro. Non sappiamo se Michael Hirst e soci hanno abbandonato per sempre la spiritualità colta e laica di Ragnar, per ributtarci nuovamente nell’oscurità di un mondo distante ancora sei secoli dal Rinascimento.
Per il momento, da semplici spettatori, possiamo dire che anche senza Ragnar ci siamo trovati di fronte a un doppio episodio denso, appassionante e ancora pieno di cose da raccontare e riflessioni da condividere. Dove finiremo non lo sappiamo, ma intanto siamo già contenti così.