The Punisher – Una recensione iniziale (e senza spoiler) di Diego Castelli
Già lo sapevamo che The Punisher aveva un protagonista perfetto, ora vediamo se regge
Questa croce, volenti o nolenti, ce la terremo per sempre. La croce di quelli che vorrebbero parlare dei pilot di Netflix, pur sapendo che quei maledetti sputano fuori 10-13 episodi alla volta, e quindi dopo 10-13 ore (precisi proprio) c’è gente che ha già visto tutto.
O parli del pilot a tre giorni di distanza e te ne freghi, o aspetti di avere il tempo di guardare tutto, o disconosci amici e parenti in modo da avere sempre i week end liberi per fare le maratone.
Oggi seguiamo la prima strada, perché di The Punisher vale la pena dire alcune cose anche senza aver visto l’intera stagione (e, mea culpa, senza manco aver finito Defenders, e già il fatto che ancora non ce l’abbia fatta dice qualcosa su Defenders, più che sulla mia vita sociale che comunque è quella che è…).
Quindi questo articolo si basa solo sui primi due episodi, e cercheremo pure di limitare gli spoiler al minimo indispensabile.
Del Frank Castle interpretato da Jon Bernthal, in realtà, abbiamo già parlato in passato, visto che The Punisher è a tutti gli effetti uno spinoff che forse nemmeno sarebbe esistito se il personaggio non fosse rimasto negli occhi come l’elemento di gran lunga migliore della seconda stagione di Daredevil.
Perché The Punisher era subito sembrato il più adatto di tutti a incarnare lo stile del supereroismo alla Netflix, uno stile più “realistico” (con le dovute virgolette) e più drammatico delle controparti cinematografiche, in cui l’azione pura è sempre la conseguenza di parole e relazioni, più che lo scopo ultimo della storia.
Dare al Punitore una serie tutta sua significa evidentemente premiarlo, ma anche consegnargli una discreta responsabilità. Soprattutto considerando che, dopo i fasti della prima Daredevil, Netflix ha mostrato più di una difficoltà a tenere alta la qualità delle sue serie supereroistiche, mai scese sotto il livello di guardia del “brutto”, ma spesso incapaci, specie Luke Cage e Iron Fist, di costruire storie che fossero davvero appassionanti e, soprattutto, liberi da alcuni errori di fondo talvolta parsi perfino grossolani.
È chiaro che qui mi scontro con quell’imbarazzo iniziale: avendo visto solo due episodi, non so ancora dare un giudizio complessivo sulla prima stagione di The Punisher.
Quello che mi sento di dire, però, è che Jon Bernthal non ha rappresentato la fortuna di un momento, la coincidenza di 6-7 episodi casualmente ben riusciti.
No, Jon Bernthal è un ottimo Punitore.
All’aspetto fisico in sé e per sé non faccio neanche caso, perché nelle trasposizioni da fumetti è il caso di essere un po’ elastici, altrimenti dovrebbero ingaggiare solo ragazzoni palestrati e donnone con stacchi di coscia vertiginosi e visi perfetti. Quello che conta è che un attore/attrice sappia trasmettere quella che è l’essenza di un personaggio che molti fan già conoscono altrove.
E qui ci sarebbe un’altra complicazione ancora: è raro che i personaggi dei fumetti, per lo meno quelli con storie decennali e stuoli di autori impegnati nel loro sviluppo, rimangano sempre uguali a se stessi. In base a chi scrive la storia e la mette in scena sulla carta possono passare grandi differenze, e questo vale anche per Frank Castle, che negli anni è stato protagonista di storie estremamente drammatiche, ma anche di istanze più caciarone e volutamente ironiche.
Allo stesso tempo, esistono tratti caratteriali e grafici che tendono a rimanere nel tempo, proprio per permettere una più immediata riconoscibilità. E quasi sempre in questi tratti/temi ci sono le storie delle origini, spesso legate a lutti o abbandoni.
Bruce Wayne non sarebbe Batman senza l’omicidio dei suoi genitori, che è quasi più importante di mantelli, orecchie a punta e caverne sotterranee. L’Uomo Ragno avrebbe comunque i suoi poteri, ma sarebbe un eroe ben diverso se suo zio non fosse stato ucciso poco dopo avergli detto il leggendario “da un grande potere…”. E così per Superman unico-superstite-della-sua-stirpe, per Wolverine che-non-ricorda-niente-del-suo-passato (anche se poi l’ha ricordato), ecc ecc ecc.
Da questo punto di vista, potendo raccontare per la prima volta sul piccolo schermo le gesta del Punitore, gli sceneggiatori capitanati da Steve Lightfoot (adoro il fatto che lo showrunner di uno degli eroi Marvel più duri e violenti si chiami “piede leggero”) hanno puntato proprio su quello, sulle origini.
Anche Frank Castle ha un lutto nel suo passato, come altri colleghi eroi. La differenza, per lui, sta nel modo in cui ha reagito alla scomparsa di moglie e figli: l’esperienza militare, già di per sé traumatica, si è mescolata al dolore e al senso di colpa per creare un killer spietato, un vigilante sanguinario e senza pietà che, proprio per i suoi metodi, ha sempre seguito un percorso parallelo e talvolta incidente con quello degli altri supereroi, senza però poterlo mai condividere, proprio perché non si può essere “super” se non si ha rispetto per la vita umana in quanto tale.
Frank Castle invece ha rispetto solo per “alcune” vite, e la sua forse non è fra queste. Insistendo in maniera quasi pedante ma necessaria sui fantasmi del protagonista, The Punisher di Netflix scava il più possibile, fino ai limiti del didascalico, nel dolore di Frank, identificandolo come unico motore non solo della sua azione di vigilante, ma della sua intera esistenza. Nei primi due episodi è già evidente che Frank Castle è morto con la sua famiglia, e che ciò che è successo dopo è solo la vendetta di un fantasma, che una volta portato a termine il suo compito rimane congelato in un umano appena funzionale che spacca muri, mangia panini e non parla con nessuno.
Lungi dall’essere mosso da un puro desiderio di giustizia e di Bene, il Punitore appende le armi al chiodo quando pensa di aver esaurito la sua vendetta, e le riprende in mano quando si rende conto che la sua missione non è ancora conclusa. E questo, in maniera un po’ più ampia, era quello che succedeva anche nei fumetti, dove l’attività di Castle era sempre e comunque legata al desiderio (ossessivo, compulsivo, spesso dichiaratamente patologico) di estirpare il Male che aveva colpito la sua famiglia.
È per questo che Bernthal al momento è perfetto. Perché in questa versione del Punitore il suo volto duro e secco da #maiunagioia non lascia spazio a facili ironie o speranze: è tutto dolore, determinazione e spietatezza, che rendono credibili alcuni scoppi di violenza che su altri attori e altri personaggi suonerebbero forzati, mentre nel suo caso appaiono perfettamente credibili, perché l’impressione costante (e da spettatori gustosissima) è che il Castle silenzioso e lavoratore sia solo una larva, un bozzolo da cui il Punitore arcigno e psicopatico è sempre pronto ad emergere.
Allo stesso tempo, però, l’occhio triste di Bernthal permette di non trasformare Castle in “cattivo”, lasciandogli addosso la malinconia che divive il malvagio dal malato, e che permette allo spettatore di volergli bene senza sentirsi troppo in colpa.
L’inizio del The Punisher di Netflix è violento e ed esaltante, e poi diventa subito più introspettivo, per dare modo al Punitore di “tornare in servizio”.
Al momento ci fermiamo qui, già consci che i giudizi complessivi sulla prima stagione sono stati comunque discordanti, e per ora convinti semplicemente del fatto che The Punisher è cominciata su buone basi e con attore pressoché perfetto. Ci risentiremo per un commento finale
PS Preghiamo quelli che hanno già visto tutta la stagione di non fare spoiler nei commenti o, nel caso, di segnalarli bene.
Grazie della collaborazione, arrivederci e non dimenticate i buoni sconto quando uscite.
Perché seguire The Punisher: Jon Bernthal era e resta un ottimo Punitore.
Perché mollare The Punisher: Al momento, l’unico motivo sarebbe la paura data dai risultati poco convincenti delle serie sue sorelle.