Sì, Stranger Things 2 è bellissima. Però no, non come la prima. di Diego Castelli
Superare l’effetto della prima stagione di Stranger Things era impossibile anche per i suoi stessi creatori.
SPOILER SU TUTTA LA SECONDA STAGIONE
Che il ritorno di Stranger Things fosse uno dei principali eventi seriali dell’autunno era fuori di dubbio, così com’era evidente a tutti la sobria qualità del marketing di Netflix, che ha nutrito l’entusiasmo già focoso dei fan con artwork, trailer, poster metatestuali, numeri di telefono e cacce al tesoro capaci di rendere ancora più evidente quello che già sapevano tutti: che nel week end appena trascorso non si poteva proprio uscire senza aver visto tutti i nove episodi della seconda stagione.
Quello che i trailer non potevano darci, però, era la risposta alla domanda fondamentale: sarebbe riuscita la seconda stagione a reggere il confronto? Addirittura a essere-meglio-della-prima?
Dopo aver completato di domenica sera questo dannatissimo binge racing (non vi odierò mai abbastanza, tutti voi, per aver causato l’introduzione di questa diabolica pratica degli episodi tutti insieme), possiamo dire che no, Stranger Things 2 non supera la prima stagione, ma questo non vuol dire che ci si sia parecchio divertiti.
Adesso però andiamo a fondo della questione. E per stare tutti sereni cominciamo dalle cose buone, che sono tante.
Con Stranger Things 2, i fratelli Duffer non propongono semplicemente un’avventura completamente nuova usando vecchi protagonisti, come capitava spesso alle saghe cinematografiche degli anni Ottanta, bensì un vero e proprio sequel, che affonda profondamente le radici negli eventi della prima stagione: un anno dopo il salvataggio di Will dall’Upside Down, il ragazzino non è ancora fuori pericolo, anzi. In numerose occasioni mostra di avere ancora una profonda connessione con l’italianizzato Sottosopra, come un supereroe suo malgrado in grado di saltare fra le dimensioni. E cosa mai ci può essere dall’altra parte, se non un mostrone di ombra e fumo, una specie si polpone semi-divino dal sapore antico (lovecraftiano, dicono quelli che hanno memoria lunga, dungeonanddragonesco, nella prospettiva più recente), che incombe fin dalle locandine sui nostri piccoli protagonisti?
Nel frattempo, i suoi amici hanno a che fare con un possibile nuovo ingresso nel gruppo (la rossa e problematica Max), con un animaletto apparentemente grazioso pronto a trasformarsi in un demogorgon, e con il ricordo di Eleven, che nel frattempo è uscita da sola dall’altra dimensione ed è stata protetta/segregata da Hopper, che nel tentativo di tenerla al sicuro ha probabilmente ecceduto nelle precauzioni, trasformandola in una reclusa.
Se ci sono due cose su cui Stranger Things funzionava, e su cui funziona ancora, sono atmosfera e fluidità del racconto. Da una parte, l’operazione revival continua spedita e rigogliosa, innervando tutti gli episodi: che si tratti di colonna sonora, costumi, citazionismo cinematografico e quant’altro, la lezione degli anni Ottanta viene mandata nuovamente a memoria, regalando ampi stralci di commovente nostalgia. Ci sono singoli rimandi espliciti e diretti, come i costumi da Ghostbusters e la splendida idea di usare la trappola degli acchiappafantasmi per contenere il (per poco) piccolo Dart. Ci sono macrostrutture prese di peso dalle saghe di quegli anni, come il passaggio da “un mostro” a “molti mostri + una madre dei mostri” che ricorda tanto il passaggio da Alien a Aliens, o il concetto del ragazzino che alleva il mostro e che poi da questo affetto sincero e immotivato ricava una ricompensa quando conta di più. Ci sono singoli vezzi registici o di gestione degli attori, che trasformano i dialoghi fra i ragazzi o le scene di tensione in vere e proprie eco di tante avventure viste al cinema trent’anni fa. Senza contare che, anche in valori assoluti, una suspense come quella che precede e accompagna la morte di Bob è cosa rara in tv.
Il tutto con un equilibrio quasi sempre ottimo fra le componenti più leggere e ridanciane, e i passaggi in cui il thriller soprannaturale diventa horror vero, specie quando c’è di mezzo la sofferenza del piccolo Will che, fra parentesi, merita di prendersi finalmente più spazio perché Noah Schnapp è bravo sul serio e mette in campo una varietà di espressioni, tremori e paure da far accapponare la pelle, prima per l’ammirazione e poi per l’inquietudine.
Lo stesso si può dire per l’uso che i Duffer hanno fatto di un budget più alto rispetto alla prima stagione. È vero, i demo-dogs a tratti sono fin troppo computerizzati, ma lo spirito della serie è rimasto invariato, non sporcato da un eccessivo mostrar di muscoli che, invece, funziona benissimo quando è il momento di esaltare la grandezza del nemico che i nostri hanno ancora davanti: la sagoma dello shadow monster a cui Eleven sbatte letteralmente la porta in faccia trasmette un senso di incredibile e maestoso che tornerà sicuramente buono in futuro.
Oltre agli aspetti più tecnici e visivi, anche la scrittura dimostra di aver saputo mantenere quella facilità di accesso che tanto era piaciuta della prima stagione: nove episodi che si bevono d’un fiato, senza problemi di comprensione, senza inutili complicazioni, con l’abilità artigiana e onesta di chi sa che mettere un cliffhanger alla fine di ogni episodio potrà pure essere banale, ma intanto funziona, e quindi perché no?
C’è un’attenzione ancora più grande per la famiglia e per l’amore, in questa seconda Stranger Things. Se la prima stagione era focalizzata soprattutto sull’amicizia e su un certo cameratismo da Stand By Me o da I Goonies, l’impressione con la seconda stagione è che invece ci sia più attenzione per la famiglia e la genitorialità in particolare: l’amore materno e ossessivo di Joyce, quello putativo e spaventato di Hopper, quello altrettanto adottivo, ma più generoso e comprensivo, del nuovo entrato Bob (nuovo entrato e subito uscito), quello manesco e sbagliato del patrigno di Max, la madre “eliminata” e tutta da ritrovare di Eleven-Jane, che nella ricerca delle proprie radici apre nuovi spazi di consapevolezza sul suo passato e su quello che vorrebbe fosse il suo futuro.
Il tutto si riflette sulla crescita, anche fisica, dei protagonisti. Sempre meno bambini e bambine e sempre più ragazzi e ragazze, i personaggi cominciano a pasticciare con sentimenti che vanno oltre l’amicizia (non male l’idea di una storia per nulla scontata fra Max e Lucas, lasciando Dustin da solo), e si arriva a un episodio finale con ben due baci, fra cui quello fra Mike e Eleven che si annusavano già dalla scorsa stagione.
Un nuovo percorso di crescita dunque, in cui la presenza di genitori piuttosto assillanti o addirittura violenti (quello meno oppressivo, Bob, finisce sbranato) pone sfide che vanno al di là dei semplici mostroni da fumetti: la vera ansia, la rabbia autentica e le urla più amare e strazianti, non nascono dalla lotta contri i cani con la faccia a fiore, bensì dalla consapevolezza, sempre più inquietante man mano che si cresce, che gli adulti sono tutt’altro che infallibili, e che diventare grandi non significa risolvere tutti i problemi.
Fin qui dunque tutto bene. Però non c’è solo questo, nella seconda stagione di Stranger Things, ci sono anche cose che hanno funzionato un po’ meno.
E prima di parlarne bisogna anche intendersi un attimo. Perché qui il vero problema è che la prima Stranger Things era esplosa fra aspettative tutto sommato normali, mentre la seconda aveva l’arduo compito di reggere desideri assai difficili da esaudire.
In questo senso, la seconda stagione non riesce a essere memorabile come la prima, non la si finisce con l’entusiasmo fanciullesco che aveva accompagnato il primo ciclo di episodi. Da un certo punto di vista era inevitabile: impossibile ricostruire il senso di sorpresa di un’operazione-nostalgia che non ci aspettavamo in quei modi e con quella precisione. Al momento della seconda stagione, Stranger Things diventa quasi inevitabilmente prigioniera di se stessa, di un citazionismo strutturale che le impedisce di essere realmente sorprendente, perché tutto quello che succede deriva da temi, stili e archetipi che già conosciamo, e che proprio per quello amiamo ritrovare.
La sorpresa con la prima stagione di Stranger Things non c’entrava nulla con ciò che effettivamente accadeva nella storia, quanto piuttosto con la cura certosina nel ricreare un’atmosfera e un certo modo di raccontare, che toccava corde profonde in un pubblico molto preciso. Stravolgere quell’approccio giusto per stupire avrebbe tradito l’anima dello show, ma allo stesso tempo è inevitabile che, con il sequel, quel senso di tuffo nel passato perda un po’ della sua forza, semplicemente perché ce lo si aspettava e, anzi, si pretendeva che fosse per lo meno allo stesso livello.
Accanto a questo considerazione obbligatoria, che in qualche modo toglie un po’ di responsabilità ai Duffer (la loro bravura ha creato un’aspettativa che nemmeno loro potevano soddisfare), bisogna però dire che alcune scelte sono sembrate fuori giri.
Per esempio, c’è stato l’innesto quasi inevitabile di nuovi personaggi, ma non tutti hanno funzionato allo stesso modo. Buono il complottista Bauman interpretato da quell’ottimo caratterista che è Brett Gelman, più normale il dottor Owens di Paul Reiser, che fa il compitino. Splendido Bob, interpretato da uno Sean Astin che infonde nel personaggio tutta la fragilità dell’ex nerd bullizzato, aggiungendoci però la saggezza e il coraggio dell’adulto responsabile. Poi però arriva una Mad Max che di epico ha solo il nome: troppo scialba la nuova rossa, troppo semplici e risolti troppo rapidamente i problemi con il fratellastro, che dal canto suo riesce a guadagnarsi un filo di pietà quando lo vediamo aggredito dal padre, ma non ha la forza di compiere un percorso come quello di Steve nella prima stagione. Rimane un cattivo da menare, un bullo fascinoso (per l’epoca) a cui ribellarsi, e niente di più, mentre invece Steve compie un ulteriore passo verso una blanda ma affettuosa nerditudine (per lo meno nel fatto che viene pestato e mollato).
E se Max non convince, nel suo ruolo di “femmina disgregatrice” all’interno del gruppo di maschietti, il problema sta a monte, nel bisogno di inserire una nuova ragazza perché quella vecchia rimane fuori dai giochi per quasi tutta la stagione: no, non ci è piaciuto vedere Eleven lontano dai suoi amici per otto episodi su nove, in primo luogo perché la dinamica fra loro era uno degli elementi di maggior forza della serie, e in secondo luogo perché, banalmente, ciò che abbiamo perso con questa mossa non è stato adeguatamente sostituito. Eleven passa quasi tutta la stagione in una ricerca del suo passato che per larga parte si concretizza in viaggi dimensionali e urla belluine, il tutto per arrivare a incontrare una “sorella” (la numero 8 come lei è la 11) la cui sottostoria è davvero poca cosa.
Quando la vediamo a inizio stagione, con quel numero che spunta dalla pelle, già immaginiamo fuoco e fiamme. In realtà, tutto si risolve in poco più di un episodio, il già famigerato episodio 7, giusto il tempo per Eleven di cambiare pettinatura e capire di non voler essere una che rapina o uccide la gente, bensì un’eroina che la salva.
Per carità, ci sta un percorso di questo tipo per una ragazzina che ha ancora molto da imparare sul mondo, ma non c’è nulla, nel modo in cui quel percorso viene raccontato, che vada oltre una qualunque serie simil-fantasy di CW. In molti hanno criticato la puntata, e molti altri invece l’hanno difesa al punto di chiedere uno spin-off con protagonisti i punkettoni incontrati da Eleven. Ora pensateci con attenzione, guardatevi dentro, e provate a pensare se davvero vorreste guardare qualcosa del genere per molti episodi.
Ecco. Dai su, andiamo avanti per cortesia.
Non solo. Se questi blocchi narrativi stanno in piedi appena dignitosamente, forse per una fretta eccessiva di creare un effetto emotivo forte (tipo l’incontro fra Eleven e Mike dopo una separazione a quel punto dolorosa anche per noi), ci sono anche altri momenti che sono apparsi forzati, o banalmente troppo legati a ciò che Stranger aveva già costruito. Per esempio, per quanto sia comprensibile l’uso di tormentoni e situazioni diventate instant classic, mi chiedo se fosse davvero necessaria un’altra stagione in cui Will è il povero bambino da salvare, uno che se mai dovesse uscire vivo da Stranger Things avrebbe bisogno di psicanalisi perenne. Così come mi chiedo se sia obbligatorio, in ogni stagione, dare modo a Joyce di montare cose sui muri di casa, come se il suo unico scopo nella vita fosse risolvere puzzle (e anche in questo caso, Bob che muore le spiana la strada per il prossimo, visto che lui si era dimostrato subito un buon solutore di enigmi).
Per dirla meglio, esiste una linea sottile fra il rispetto dei ruoli, l’autocitazionismo e i tormentoni da una parte, e la semplice ripetitività dall’altra, e ho l’impressione che in questi nove episodi Stranger Things abbia giocato con troppa facilità su quella linea, scivolando talvolta dalla parte sbagliata.
Alla fine del nono episodio c’è un nuovo cliffhanger. Forse meno forte rispetto al finale della prima stagione (dove Eleven spariva in una dimensione da cui sapevamo sarebbe rispuntata), ma comunque chiaro: la porta è stata chiusa davanti al mostro, ma il mostro non è stato ucciso e non ha certo rinunciato ai suoi loschi propositi. C’è quindi ancora spazio per una storia che i Duffer vogliono spalmata su quattro stagioni, e che potrebbe magari giovarsi degli altri fratelli e sorelle di Eleven, a patto che l’arrivo di altri soggetti potenziati (capaci quindi di abbattere Godzilla) non tolga nulla a chi i poteri non li ha, ma si è guadagnato l’affetto del pubblico.
Certo è che Stranger Things si trova ora a un bivio. Dopo una prima stagione eccezionale (nel senso proprio di “d’eccezione”) e una seconda stagione leggermente normalizzata ma ancora estremamente godibile e amabile, la sfida è quella di rilanciare: una terza stagione con tante belle citazioni e Will che rischia la vita non basta più. Serve un guizzo magari rischioso, ma che riesca davvero ad alzare il tiro, perché siamo tutti convinti che, quando sarà finita per sempre, ricorderemo Stranger Things come una grande serie. Sarebbe però un peccato se la sua migliore stagione fosse sempre e solo la prima.