Tre pilot in 42 secondi: 9JKL; Me, Myself and I; Kevin (Probably) Saves The World di Diego Castelli
Ottimizzare ottimizzare!
Dai, è il momento di ottimizzare. Ieri il Villa vi ha parlato di tre drama magari non brutti, ma non abbastanza belli da seguire con costanza. Oggi io faccio la stessa con tre comedy, anzi con due comedy e mezza, visto che una sta un po’ a metà strada.
9JKL
Cominciamo con quella più facile, quella cioè in cui il giudizio di “medietà” (se non mediocrità) è più netto e preciso. Parliamo di 9JKL, la storia di un uomo che a seguito di varie vicissitudini torna a vivere in un appartamento attaccato a quello dei genitori e a quello della famiglia del fratello. Ovviamente non stiamo parlando di parenti discreti che si fanno i fatti loro e al massimo si offrono di aiutare se c’è bisogno di qualcuno che ritiri un pacco. No, sono dei rompicoglioni di proporzioni bibliche, impiccioni fino al midollo, ficcanaso senza possibilità di redenzione. Ed è chiaro che il protagonista Josh (interpretato da Mark Feuerstein, ex Royal Pains), che pure è un uomo piacente di buona simpatia, si trovi invischiato in un’esistenza totalmente priva di privacy.
Una serie media, si diceva, una sitcom che gioca su stereotipi abusatissimi (le madri apprensive, i fratelli imbecilloni) per strappare qualche risata che magari arriva pure, ma che in nessun modo può dirsi memorabile. La si lascia perdere e basta.
Me, Myself and I
Qui siamo già messi meglio. Lungi dalla banalità trita e ritrita di 9JKL, la serie di Dan Kopelman (già produttore di Galavant e Malcolm in the Middle) prova a piazzare un’interessante prospettiva di racconto e messa in scena: narrare la storia di un uomo, Alex Riley, in tre punti diversi della sua vita: a 15 anni, a 40 e a 65. Ovviamente tre sono gli attori che lo interpretano (dal più piccolo al più grande: Jack Dylan Grazer, Bobby Moynihan, John Larroquette) e tre sono i punti di vista su un’esistenza che presenta alcune ricorrenze e molte differenze, perché Alex passa da aspirante inventore, a inventore sempre al verde, a inventore di successo. Una sfida interessante per gli autori, non fosse altro perché solo il racconto dell’Alex anziano punta a un futuro che non conosciamo e che quindi può rappresentare una vera sorpresa.
Allo stesso tempo, un po’ come in This Is Us, portare avanti più piani temporali in parallelo permette di costruire continui rimandi e autocitazioni, tessendo la trama di una vita che gioca sul filo delle emozioni, della nostalgia e dell’apprendimento. Quello che manca, tanto per rimanere nel paragone, è la classe e l’eleganza di This Is Us, che qui sfumano in una comedy piacevole e con buone idee, ma che già dal secondo episodio mostra una certa ripetitività dello schema, che forse sarebbe stato più adatto a un film che a una vera e propria serie tv.
(Nota di merito per la presenza di Jaleel White, il buon vecchio Steve Urkel di Otto sotto un tetto).
Kevin (probably) Saves the world
A tutti noi è capitato di avere in testa un’idea potenzialmente fantastica per un film o una serie tv, senza però riuscire a metterla giù come si deve, a trovare il fuoco preciso di ciò che vogliamo raccontare. Ecco, Tara Butters e Michele Fazekas (Agent Carter, Dollhouse, Reaper) danno l’impressione di trovarsi a questo stadio, ma la serie l’hanno già fatta comunque: si chiama Kevin (Probably) Saves The World e racconta di un uomo, ex aspirante suicida, che riceve la visita di un simil-angelo che gli dice “l’equilibrio del mondo si basa sull’esistenza di 36 persone dall’anima pura, al momento ce n’è una sola, tu, e devi trovare le altre 35”.
Inserito in una religiosità piuttosto generica, quindi non necessariamente cristiana, KPSTW cerca di raccontare la bellezza della semplicità, della bontà, l’importanza di un abbraccio e di un gesto di affetto anche in un mondo cinico e spesso difficile. Dopo il pilot siamo però in un limbo un po’ indecidibile, con ampi stralci di comedy zuccherosa, una missione dai contorni ancora poco definiti, e piccoli momenti di platonico romanticismo che tutto sommato funzionano, lasciandoci comunque un po’ smarriti. Un grosso boh, insomma, che avrebbe le potenzialità per salire di tono e di spessore, ma che potrebbe anche tradursi nell’accumulo di tante scenette fin troppo dolci e telefonate. Il problema è che, nel mondo iperseriale in cui viviamo, per convincerci a guardare con entusiasmo un secondo episodio serve un po’ di più.