Star Trek: Discovery, detta anche Dark Star Trek di Francesco Martino
La nuova incarnazione del franchise punta su un’atmosfera diversa che già divide
Vi è mai capitato di ritrovarvi in uno di quei lunedì in cui siete più stanchi della settimana precedente? Vi svegliate la mattina, vi rendete conto che nel weekend appena trascorso avete fatto di tutto tranne che riposarvi, e vi alzate dal letto pensando già a quanto sarà bello quando ci ritornerete tra circa dodici ore. Ecco, l’altro ieri era uno di quei lunedì, uno di quei giorni in cui non vedevo l’ora di tornare a casa per non fare altro che mettermi a dormire rimandando qualsiasi impegno preso in precedenza. Ma nonostante il sonno e un inevitabile principio di influenza che mi perseguita da ieri, la voglia di vedere Star Trek: Discovery era tanta, dovuta principalmente a tre motivi: la fama storica della saga, i nomi coinvolti in questa operazione, e i feedback quasi folli circolati dopo la messa in onda negli USA.
Ma facciamo un passo indietro: che roba è Star Trek: Discovery? Nato dalle menti di due signori come Bryan Fuller (che però ha mollato la funzione di showrunner abbastanza presto, per dedicarsi meglio ad American Gods) e Alex Kurtzman (Fringe e la recente trilogia cinematografica di Star Trek), la serie si pone come un prequel ambientato circa dieci anni prima della serie originale (quella con Kirk e Spock), e segue le vicende dell’astronave Discovery e le conseguenze di una guerra non-troppo-fredda con la celeberrima razza Klingon, guidata da T’Kuvma. I primi due episodi fungono a tutti gli effetti da introduzione quasi a se stante dei fatti principali, non mostrandoci ancora l’equipaggio fatto e finito, ma presentando la vera protagonista della serie: Michael Burnham (Sonequa Martin-Green), primo ufficiale e primo essere umano ad aver studiato al Centro della Conoscenza di Vulcano e all’Accademia delle Scienze vulcaniana agli ordini di Sarek, ma soprattutto amica e collega del capitano Philippa Georgiou (Michaelle Yeoh).
Il rapporto tra le due viene messo al centro del conflitto tra la flotta Klingon e la Shenzhou, sviluppandosi in ottanta minuti visivamente spettacolari, in grado di reggere agilmente il confronto con molti colleghi del grande schermo. Come ogni buon appassionato seriale saprà, davanti a un pilot così “pompato” si nasconde sempre il rischio di un proseguimento di più basso profilo. Della serie “avevamo dieci mele, otto le abbiamo spese nei primi due episodi fra effetti speciali e trucchi supercomplessi, e le altre due le usiamo per finire la serie girando in corridoi grigi con le luci al neon”.
Ma è decisamente troppo presto per dirlo, così come potrebbe essere troppo presto per parlare già di una serie che “tradisce” l’anima della saga. Eppure gran parte del mio interesse per Discovery veniva anche da qui, dai moltissimi commenti letti online, pareri divisi nettamente in due schieramenti: da un lato un bel numero di critici entusiasti, dall’altra una larga quota di fan delusi.
L’impressione iniziale è che Discovery stia cercando uno nuovo stile per Star Trek, più oscuro, drammatico e intenso, una specie di versione più adulta e dark del concept iniziale pensato da Gene Roddenberry. Una scelta che nel doppio pilot sacrifica parte del tema della scoperta (curioso per una serie che si chiama “Discovery”), in favore di una narrazione più sincopata che usa elementi già conosciuti (la Federazione, i klingon, la ferrea logica vulcaniana) per costruire uno scenario politico-militare più duro e contrastato. Da qui l’entusiasmo di molti critici, attratti dal sapore della novità e dalla creatività altamente cinematografica di molte immagini (anche a fronte di qualche incoerenza della trama), e la contemporanea delusione di molti fan di vecchia data, che denunciano lo smarrimento dell’anima originaria di Star Trek.
Si arriva al paradosso per cui molti fan ortodossi della saga si sono ritrovati a storcere il naso di fronte a Discovery, preferendogli The Orville, la nuova serie di Seth McFarlane che di Star Trek è un omaggio-parodia, ma che proprio per questo sembra capace di coglierne un certo senso profondo, più curioso e fanciullesco, che permea la costruzione delle storie e perfino la messa in scena, spesso palesemente vintage.
Qui a Serial Minds il Castelli non è rimasto convinto da The Orville, ma per motivi che non c’entrano con il rapporto con il materiale originario, rapporto che a sorpresa sta diventando una chiave importante nell’apprezzamento da parte di un certo tipo di pubblico.
La verità, nel lungo periodo, starà probabilmente nel mezzo. Se è vero che Discovery sembra allontanarsi dalle atmosfere tanto care ai fan di lungo corso, è altrettanto giusto dire che un prodotto di questo tipo ha esigenze più larghe dell’autoghettizzazione per compiacere una ristretta cerchia. La stessa scelta di un prequel, che non avesse bisogno di fare i conti con le mille storie raccontate da Kirk in poi, sembra un chiaro segnale della volontà di rendersi appetibili anche a un pubblico nuovo che Star Trek non l’ha mai vista prima. Allo stesso tempo, non è affatto escluso che questa introduzione così violenta e guerresca lasci poi il passo a puntate più autoconclusive e più vicine al solco della tradizione.
Mai come in questo caso, dunque, è davvero troppo presto per dare giudizi definitivi su una serie che in due episodi introduttivi ha soprattutto deciso di mostrare tutti i suoi muscoli. La verità arriverà con il tempo, ma quello che conta è che, al momento, Star Trek: Discovery si merita comunque una certa attenzione.
Ci risentiremo.
Perché seguire Star Trek: Discovery: una serie che promette una narrazione accattivante con un reparto visivo al momento notevole. Il tutto, fra l’altro, sul vostro account Netflix.
Perché mollare Star Trek: Discovery: Se siete fra quelli che, dopo anni di Star Trek, non si sentono a casa nelle nuove atmosfere di Discovery.