Twin Peaks doppio finale – Arrivederci e (tante) grazie di Diego Castelli
Ci sanguina un po’ il naso, ma siamo molto soddisfatti
“La reazione della gente che vede l’Opera per la prima volta è molto drammatica, o l’amano o la detestano. E se l’amano, l’amano per sempre, altrimenti impareranno ad apprezzarla, ma non la sentiranno mai veramente.”
Mi rendo conto che possa suonare strano iniziare a parlare del finale di Twin Peaks citando Pretty Woman, ma se in quella frase sostituite la parola “Opera” con il titolo “Twin Peaks”, avrete la perfetta descrizione di un fenomeno per pochi, ma che quei pochi li manda fuori di testa.
E mi tocca pure ammettere che io non faccio parte di quei pochi. Io sono nel gruppo “impareranno ad apprezzarla, ma non la sentiranno mai veramente”, per lo meno se devo giudicare sulla base di quella che mi sembra essere la vera fede per Twin Peaks. Interi gruppi di adepti che gridano e piangono, che guardano ogni episodio più volte (non mi è mai passato manco per l’anticamera del cervello), che ripercorrono ogni più piccola inquadratura e suono di tutti i singoli episodi, per goderne semplicemente, o per cercare indizi per capire, per comprendere, per dare un senso a un’opera che nel corso di un quarto di secolo ha custodito i suoi segreti così gelosamente, che alcuni sono arrivati a pensare che di segreti in realtà non ce ne siano, e che sia tutto un pastrocchione partorito dalla mente di un simpatico artista che ci ha dato troppo dentro con la meditazione.
Mi sento perciò un po’ in colpa a parlare di Twin Peaks, nel senso che mi sarebbe anche piaciuto lasciare la parola a qualcuno degli impallinati veri, quelli che nel corso di queste settimane hanno posto domande così ardite e specifiche, che nel leggerle non solo non sapevo la risposta, ma spesso nemmeno capivo la domanda.
Allo stesso tempo, nel mio essere uno che ha imparato ad apprezzare la grandezza indiscutibile dell’opera di Lynch – anche se non mi batte il cuore a ogni inquadratura, e anche se qui e là mi rompo semplicemente i coglioni – mi piace pensare di poter offrire a qualche navigante sperduto un’impressione stordita ma sincera, tipo un Cristoforo Colombo che torna dal suo viaggio e gli chiedono “dove sei stato?” e lui risponde “Non lo so con precisione, però era piuttosto figo.”
Un collegatore di mondi, insomma, e Dio solo sa quanto conti collegare i mondi quando si parla di David Lynch.
Il doppio finale di Twin Peaks, come era lecito aspettarsi e come molti pregustavano, offre un certo quantitativo di risposte e una carriolata di domande che rimangono insolute. E non è questo il luogo, né sono io la persona, per scorrerle tutte punto per punto.
All’inizio della stagione, e dopo il famoso/famigerato episodio otto, avevamo già scritto della nuova stagione di Twin Peaks, e di come la sua stessa esistenza fosse non solo auspicabile, ma perfino necessaria. Non tanto nella sua capacità di essere fenomeno di massa, che non è e non vuole essere, ma proprio per la sua natura di confine, di punto televisivo oltre il quale c’è un abisso inesplorato. Era così negli anni Novanta, ed è così anche oggi, in un 2017 in cui David Lynch si permette, in una serie tv a episodi che va in prime time su una famosa cable americana, di spargere immagini e suoni e sensazioni che spesso sembrano avere più a che fare con la videoarte che con la classica narrazione televisiva.
Non è tanto una questione di caos, o di colpevole assenza di logica. È questione di rendersi conto che per David Lynch la logica non è un fine, o un metro di giudizio, quanto uno dei molti strumenti da utilizzare per ottenere un certo effetto sullo spettatore.
Questo, sia chiaro, non è un modo elegante per dire che in Twin Peaks non c’è logica o che le cose succedono a caso. Il ragionamento è più sottile. Lynch sa benissimo che, per loro stessa natura, i suoi spettatori più fedeli sviscereranno ogni anfratto della sua opera alla ricerca del senso, del dove, del come, del quando e del perché. Siamo umani, è nella nostra natura provarci. E proprio per questo, per rispetto alla nostra natura, Lynch effettivamente inserisce brandelli di senso in Twin Peaks, costruisce cioè una trama che abbia un minimo di inizio e di fine, e concede risposte abbastanza precise ad alcune grandi domande e questioni in sospeso. A volte lo fa in modo subdolo e complicato, così che solo i più attenti e volonterosi saranno in grado di capire, ma lo fa.
Poi però c’è anche tutto il resto, cioè una serie di immagini, situazioni e concetti che non rispondono a una logica immediata o consequenziale, che non vanno da un punto A a un punto B e infine a un punto C, ma che per arrivare al punto C (se ci arrivano) passano prima dal punto F e, perché no, dal punto 8.
Nel doppio finale di Twin Peaks troviamo tutto questo. Troviamo la soddisfazione e la frustrazione, le risposte e le domande.
Per esempio, riusciamo a vedere la conclusione della vicenda di BOB. Dopo venticinque anni (alla faccia del cliffhanger!) l’entità maligna conosciuta come BOB viene definitivamente sconfitta, chiudendo il cerchio di una serie di delitti iniziati come un semplice giallo e finiti come un horror soprannaturale. Al di là delle modalità con cui questo avviene – BOB in forma di sfera volante viene sconfitto da un ragazzino con il pugno di Hulk, sulla cui identità e vicende sarebbe meglio lasciare la parola agli adepti – giungiamo effettivamente a una chiusura importante, in cui troviamo giustizia per Laura Palmer e dove potrebbe finire tutto davanti a una bella tazza di caffè e torta di ciliegie.
Peccato che questa è Twin Peaks, e che quella scena arriva prima ancora che finisca il primo dei due episodi che costituiscono il season finale. Poi c’è il degenero.
Poi c’è Cooper, il vero Cooper, quello che David-Lynch-il-Bastardo ha tenuto nascosto dentro Dougie Jones per tutta la stagione (Soddisfare il pubblico con la visione continua del loro eroe? Ma figuriamoci!), che ora deve iniziare un nuovo viaggio, un viaggio allucinato in cui di nuovo perde se stesso e diventa qualcos’altro.
Colpito dalla presenza della donna cieca, subito dopo la morte di BOB Cooper diventa una faccia in sovraimpressione che rimane sospesa su buona parte delle immagini successive, a snocciolare frasi appena appena importanti come “Viviamo dentro un sogno”. Subito dopo, Lynch permette a Cooper di fare una cosa assolutamente vertiginosa: lo fa entrare (ma soprattutto lo fa interagire) con le immagini del pilot di Twin Peaks e di Fuoco Cammina Con Me, quindi non solo fa viaggiare nel tempo il personaggio, ma unisce fisicamente la vecchia e la nuova Twin Peaks, facendole fuoriuscire una dall’altra. Un sorprendente viaggio in bianco e nero che sembra avere un unico scopo: non solo vendicare Laura Palmer, ma salvarla direttamente.
La seconda metà dell’episodio 17, e tutto l’episodio 18, sono la conferma che Lynch non ha alcuna intenzione di farci addormentare col sorriso di chi ha tutte le certezze, anzi. E dire che la trama spicciola sembra presa da un banale film di fantascienza: usando i mondi soprannaturali che ben conosciamo come luoghi di intermezzo, Cooper va nel passato e salva Laura dalla sua morte, cambiando gli eventi che diedero origine alla prima Twin Peaks. Laura non muore, non viene avvolta nella plastica né abbandonata sulla riva del lago, tanto che il bravo Pete Martell, che nel pilot di venticinque anni fa trovava il corpo, ora se ne va a pesca tranquillamente. Roba da Michael J. Fox, verrebbe da dire.
Solo che non è così semplice. Una volta cambiato il passato, un Cooper stranito, turbato, in qualche modo cambiato e incupito (ma è davvero lui?), passa un episodio 18 a metà fra gli abbracci di Diane (quella vera) e il tentativo di chiudere i conti con tutti, in un’ennesima ambientazione che puzza di dimensione parallela, di posto non del tutto giusto.
Va così a prendere Laura, o quella che lui crede essere Laura, e trova Sheryl Lee nei panni di un’altra donna, che non sa chi sia Laura e che decide di seguirlo giusto perché ha in casa un tizio morto, presumibilmente ucciso da lei, da cui vuole comprensibilmente fuggire. Cooper non demorde, è convinto che quella sia Laura, e decide di portarla alla sua vecchia casa, dove è certo di trovare la madre di lei che non vedrà l’ora di vederla (La sentite? La logica che scivola via anche da Cooper? Ne riparliamo a breve). Ancora una volta, le aspettative sono deluse: nella vecchia casa di Laura c’è un’altra famiglia, e nessuno ha memoria di lei.
Sono ancora lì a chiedersi che diavolo sia successo, quando Laura-Carrie sente il suo nome sussurrato da una voce misteriosa, e caccia un urlo agghiacciante che sostanzialmente chiude la puntata (salvo la riproposizione dei suoi bisbigli a Cooper nella Loggia) e che ci accompagnerà per qualche notte ancora.
A questo punto è necessario parlare di sogni. Non solo Twin Peaks, ma tutta l’opera di David Lynch è profondamente influenzata dalle dinamiche del sogno, e dal contrasto fra queste dinamiche e quelle più fredde e precise della realtà.
La capacità di amare davvero Twin Peaks, quella capacità che nemmeno io possiedo pienamente e che invece produce la fascinazione primitiva e quasi pre-cosciente di molti fan, è in qualche modo simile alla capacità di lasciarsi andare al potere dei sogni, in cui le briglie delle logica diventano sempre più sciolte, senza che per questo venga meno l’emozione, che anzi ne viene in qualche modo potenziata e diventa la base su cui costruire tutto.
Suscito il tuo interesse emozionandoti, senza farti capire come e perché ti emozioni.
Quando David Lynch usa la logica del sogno (cioè quasi sempre) allontana molti spettatori, specie seriali, che non sono abituati e magari nemmeno interessati a prescindere dalla normale comprensibilità matematica, ma questo gli permette di creare affreschi in cui le associazioni fra idee e immagini vengono da una profondità diversa e maggiore, e per questo più impattante.
Lo sa bene Cooper, che dal sogno crede di essersi svegliato. Più che il sogno in sé e per sé, infatti, Twin Peaks sembra tematizzare il concetto di risveglio. Quando Laura Palmer viene uccisa, la cittadina di Twin Peaks si risveglia dal sogno bucolico del paesello di provincia in cui tutto va bene. Quando si scopre dell’esistenza di BOB, personaggi e spettatori si svegliano dal sogno rassicurante di trovarsi in un semplice giallo poliziesco, scoprendo di essere in un mondo ben più terrificante. E venticinque anni dopo, quando BOB viene distrutto, è Cooper stesso a dirci “viviamo dentro un sogno”, quasi a metterci in guardia dal fatto che no, non ci siamo ancora svegliati, e vedendo com’è andata le altre volte, il prossimo risveglio potrebbe portarci a qualcosa di ancora peggiore.
Cosa che puntualmente avviene: Cooper crede di svegliarsi dall’incubo-Twin Peaks quando salva Laura e poi la va a prendere. Qui siamo nella “realtà”, per lo meno la realtà-più-reale fra quelle che la serie ci ha proposto finora, tanto che (grazie a Simone Stefanini che ha beccato il dettaglio) la proprietaria della casa in cui si recano Cooper e Carrie/Laura è interpretata dall’effettiva proprietaria di quell’edificio. Solo che il risveglio è peggiore del sogno, perché qui Laura (che però comunque non è Laura) è una donna sconfitta dalla vita e che, forse, non è riuscita a lasciarsi alle spalle un’oscurità che da Twin Peaks ha riverberato nel tempo, nello spazio e negli universi alternativi.
Per quanto forte possa essere l’istinto di considerare tutte queste storie come sogni nei sogni nei sogni, come se a un certo punto ci dovesse essere il risveglio definitivo di un personaggio, magari interpretato da Kyle MacLachlan, che prende e va al lavoro come se niente fosse, sappiamo che non è così, che non può e non deve essere così semplice.
Se pure è vero che parte della passione per Twin Peaks deriva dalla possibilità di giocare con percorsi di senso complicati e circonvoluti, Lynch tiene sempre ben visibile il baratro, l’abisso dell’indecidibilità, il punto oltre il quale la mente umana può solo esperire, senza davvero comprendere.
In questo contesto, la metafora del sogno non serve dunque a capire la trama di Twin Peaks, quanto a riflettere l’idea che Lynch ha del reale. L’uomo che mettendo in scena i propri sogni ha costruito una carriera, sembra volerci dire che un risveglio è sempre possibile, forse addirittura inevitabile, anche se non per forza la realtà in cui ci si risveglia è migliore del sogno. Soprattutto, raccontandoci di un uomo disposto ad aspettare un quarto di secolo in una dimensione soprannaturale pur di venire a capo dei suoi enigmi, Lynch ci racconta anche della tenacia degli esseri umani, eroi infaticabili disposti a tutto pur di salvare la loro Laura Palmer, anche quando il mondo che abitano è complicato, oscuro e spesso ostile.
Laura contro Judy, luce contro oscurità, ragione contro follia.
È un circolo che non ha fine, una speranza di chiarimento che non può morire, ma nemmeno può essere soddisfatta, in un percorso infinito come il simbolo che Phillip Jeffries ottiene modificando il simbolo del gufo.
Ma quindi adesso che succede, ci sarà un’altra stagione? Sapremo mai come va davvero a finire? Boh. Ma soprattutto, ci interessa?
No: per quanto l’istinto ci porti a cercare una risposta finale e completa, Twin Peaks non può darcela, perché al cuore di Twin Peaks, del suo orrore e delle sue risate, risiede la terribile consapevolezza che una risposta univoca non c’è.
Non possiamo trovare le risposte, ma non possiamo nemmeno smettere di cercarle, e in quel continuo cercare sta a noi trovare il piacere, la felicità, o la frustrazione.
A conti fatti, la più semplice e vertiginosa metafora della vita ce la offre Twin Peaks, la serie tv meno chiara e lineare della storia.
Diavolo d’un Lynch.