The Handmaid’s Tale season finale: sfumature di grandezza di Diego Castelli
Un prima stagione che ricorderemo
SPOILER SUL FINALE DELLA PRIMA STAGIONE
Quando il Villa ha parlato di The Handmaid’s Tale dopo aver visto i primi episodi, non ha esitato a usare il termine “bomba”.
A fine stagione confermiamo questa impressione iniziale, non fosse altro, prima ancora di parlare di temi e di politica, per la capacità di imporre uno stile visivo e di racconto. In queste settimane, i primi piani sofferti della bravissima Elizabeth Moss, il rosso e bianco delle uniformi delle ancelle, la gelida lentezza di un mondo perduto, i piccoli e fragili barlumi di speranza spuntati qui e là in mezzo al sadismo, sono tutti elementi di grande impatto emotivo che colpiscono al cuore prima che al cervello, rendendo The Handmaid’s Tale una serie tv riconoscibile da subito, che spicca sullo sfondo più rumoroso ma anche più cacofonico della gran matassa seriale che ormai ci assedia da ogni parte (con nostro grande gusto, ma pure con un filo d’ansia).
Dopo nove episodi segnati dal #maiunagioia, in cui l’intenzione degli autori sembrava quella di mostrarci angherie e perfidie sempre maggiori con le quali costruire un mondo realmente opprimente, mi aspettavo comunque un guizzo ribelle, una naturale conseguenza di indizi sempre più insistenti che ci raccontavano, a partire da semplici scritte incise nell’armadio, la volontà di June di non abbandonarsi alla sconfitta, trovando la forza per rivendicare la proprio individualità.
Quel guizzo alla fine è arrivato, anche se forse in modo un po’ diverso da come me lo aspettavo, ma non per questo meno interessante.
Che The Handmaid’s Tale sia una serie femminista, così come il romanzo da cui è tratta, non è certo una grande rivelazione, talmente chiara che alle volte la serie ha rischiato di scivolare in una retorica troppo esplicita: nella costruzione di un mondo segnato dall’integralismo cristiano, in cui le donne sono niente più che cuoche, oggetti di piacere, e quando possibile incubatrici per neonati, gli autori hanno buon gioco a stuzzicare l’indignazione degli spettatori, sfruttando le violenze subite da June e compagne. Come dire, a volte il messaggio sembra così chiaro ed esplicito da sembrare perfino stucchevole.
Fortunatamente, accanto a una messa in scena che non diventa mai scontata o banale e che già solo per questo nobilita il tutto con il senso di una ricerca stilistica che vada oltre il compitino, entrano in gioco anche alcuni elementi specifici. Uno di questi, durante tutta la stagione ma soprattutto nel finale, è la stronzaggine delle donne che ancelle non sono. Nell’ultimo episodio, dopo aver capito cosa andava avanti fra marito e ancella, Serena sbotta un po’ con chiunque, e si rende protagonista di una bastardata non da poco: porta infatti June a vedere la figlia perduta, ma solo da lontano, dietro il vetro silenzioso di una macchina, minacciandola poi con la promessa che, se June decidesse di fare del male al bambino che porta in grembo (notizia dell’ultima ora), allora ci sarebbero conseguenze anche per la figlia strappatele tempo prima.
Questo è un punto importante perché ci mostra non solo le donne effettivamente schiavizzate, ma anche quelle che, per quieto vivere o dopo un assenso convinto, accettano di buon grado quella schiavitù, a patto che non venga imposta anche a loro (per lo meno non in quei termini).
Non è dunque un duello fra uomini e donne, bensì un triangolo in cui a un vertice ci sono le donne che, per ignoranza o banale egoismo, non fanno nulla per proteggere chi ha avuto meno fortuna di loro. Un problema che, ovviamente, potrebbe richiamare alla mente certe forme di odio tutto al femminile (da donne verso le donne, coi toni dei peggiori uomini) che ogni giorno vediamo in tv o sui social, ma che rimanda più in generale al tema del collaborazionismo e dell’ignavia, pungolando l’orgoglio e il senso di colpa di chi magari le bastardate non le fa, ma accetta che esistano purché nessuno vada a toccargli il suo orticello.
A ben pensarci, considerando quanto il viscidume di Fred sia in qualche modo caricaturale, talmente ripiegato su se stesso da diventare quasi comico (specie quando si caga sotto al pensiero che la moglie possa fargli tagliare la mano come successo a Putnam), è proprio nei rapporti fra donne che monta di più lo sdegno dello spettatore, che non si capacita di come Serena o Lydia possano essere donne, e allo stesso tempo infliggere tanto dolore ad altre donne, solo per il fatto che sono donne.
Sarà anche per questo che il famoso guizzo, il twist ribelle che tanto si aspettava, arriva in una scena in cui gli uomini hanno davvero un ruolo marginale. Janine viene condannata a morte per lapidazione, zia Lydia gestisce tutta la faccenda, e come abbiamo già visto in passato l’onere del lancio delle pietre è lasciato alle altre ancelle.
E qui, dopo averne subite di ogni per episodi su episodi, June e le altre decidono che è il momento di dire basta: le pietre non vengono tirate ma lasciate cadere, e a dispetto di qualunque possibile conseguenza le ancelle rifiutano di uccidersi fra loro. “Non avrebbero dovuto darci uniformi, se non volevano trasformarci in un esercito”, dice June a inizio episodio, e l’orgoglioso ritorno a casa dopo questa ribellione sembra riflettere proprio questa neonata coscienza di classe, anzi di genere, con cui le ancelle scelgono di coltivare una speranza probabilmente vana, ma non per questo inutile.
Questo mi pare l’elemento migliore di una scena che, comunque, abbonda ancora una volta di retorica tanto da arrivare alla camminata al ralenty che fa tanto Armageddon. Il bello però sta proprio nel fatto che la ribellione non riguarda la fondazione di una milizia che punta a rovesciare l’ordine di Gilead: è invece una ribellione molto più personale, interiore, la decisione di “non starci” a prescindere da tutto, anche dal fatto che si abbia o meno la possibilità di costruire una rivoluzione vera, nel senso militare del termine.
Il sorriso con cui June viene portata via, in un finale che nel libro era definitivo, e che invece in tv diventa cliffhanger per la seconda stagione, ci restituisce l’importanza della ribellione in quanto tale, come se l’atto di riappropriazione del sé da parte di June fosse tanto più significativo e “giusto” quanto più inutile e privo di conseguenze pratiche.
E il valore della ribellione nei confronti non solo della cattiveria, ma anche della debolezza che permette alla cattiveria di prosperare, è uno dei temi centrali della serie. The Handmaid’s Tale parla di donne, ovviamente, ma parla altrettanto ovviamente di religione, e trasporta l’integralismo delle fede più cieca da spazi che normalmente consideriamo lontani e alieni, dentro uno scenario statunitense che, a quel punto, non sembra più tanto distante.
È chiaro che parte della riflessione sulla serie deve tenere conto del tempo in cui la storia è stata inizialmente concepita, in un romanzo di trent’anni fa, ma è interessante considerare come può essere cambiata la percezione di quella storia dopo tre decadi in cui lo stesso contenuto pizzica corde diverse nella mente di fruitori diversi.
Un mondo preoccupato da crisi economica e terrorismo di matrice islamica percepisce un racconto di soggiogazione femminile in modo inevitabilmetne diverso rispetto a un mondo segnato dalla Guerra Fredda e da ingiustizie sociali ancora più pronunciate (o più facilmente ricordate) rispetto a oggi.
Nella nostra percezione (e non parlo solo di “contemporanei”, parlo di “italiani”), The Handmaid’s Tale sembra allargarsi rispetto ai timori circa i movimenti evangelici americani, e acquista un senso più globale di attenzione verso gli estremismi: in un contesto politico e mediatico in cui populismi ed estremismi di ogni genere pretendono di offrire soluzioni semplici e nette a problemi complessissimi, il racconto delle ancelle ci mette in guardia dalla facilità con cui, in periodi di crisi, gli uomini sanno abbandonarsi a scelte pericolosissime, capaci di saltare dalla padella alla proverbiale brace.
E il fatto che il sistema escogitato dai misogini di The Handmaid’s Tale “funzioni” nei confronti del problema principale (la sterilità causata dall’inquinamento) è un elemento particolarmente significativo: no, cari spettatori, non sempre il fine giustifica i mezzi, una riflessione da tenere a mente in più situazioni, non solo quanto una nascente teocrazia minaccia di ribaltare completamente la nazione in cui vivi.
In queste settimane c’è stato anche spazio per critiche piuttosto aspre. Per esempio, intorno a The Handmaid’s Tale è stata sollevata una questione razziale: qualcuno si è chiesto quanto sia credibile, o opportuno, che un presente distopico ambientato negli Stati Uniti dimentichi completamente l’elemento della razza, riducendo tutti i problemi a uno scontro di genere. Com’è possibile, insomma, che un Paese che da secoli è avvelenato da un razzismo mai del tutto sconfitto, possa diventare una società in cui l’unico scontro sia quello maschio-femmina?
Questione di lana caprina, forse, magari una polemica eccessiva, ma che non è priva di qualche ragionevolezza, nel momento in cui non nega la qualità della serie, ma semplicemente evidenzia una sua colpevole leggerezza.
A conti fatti, però, mi sembra che il bilancio possa essere estremamente positivo. Anzi, il fatto che qualcuno percepisca delle mancanze è in parte un punto d’orgoglio: lungi dal limitarsi a offrire un semplice “intrattenimento”, The Handmaid’s Tale costruisce uno scenario artistico in cui lo spettatore viene continuamente ingaggiato, schiaffeggiato, stimolato. A volte in modo bieco, barbaro e diretto, altre volte in modo più sottile.
La possibilità di interpretazioni e reazioni diverse, a seconda della sensibilità di ognuno, e la delusione di chi avrebbe voluto veder trattati meglio temi a lui più cari, sottolineano comunque la forza espressiva di una serie che lascia il segno, che spinge a una riflessione che vada oltre il momento in cui la puntata finisce.
Un prodotto ambizioso, dunque, che in quell’ambizione ogni tanto sbanda, ma da cui ha estratto la grandezza.